lunedì 28 gennaio 2008

Le favole di Oscar Wilde

Alla Signorina Margot Tennant,
Signora Asquith

C’erano una volta due poveri Spaccalegna che se ne ritornavano a casa attraverso una grande foresta di pini. Era d’inverno, e una notte di freddo intenso. La neve aveva distesa al suolo la sua fitta coltre, e anche i rami degli alberi ne erano carichi; il gelo faceva cricchiare i rametti al loro passaggio, e quando giunsero alla Cascatella di Montagna la videro sospesa immobile nell'aria, poiché il Re-Ghiaccio l’aveva baciata.
Faceva talmente freddo che nemmeno gli animali e gli uccelli sapevano come raccapezzarsi.
«Uff!» bofonchiava il Lupo mentre veniva avanti zoppicando con la coda tra le gambe attraverso lo sterpeto. «Che tempo infame! Perché il Governo non ci pone rimedio? »
«Uiit! Uiit! Uiit!» cinguettavano i Fanelli verdi. «La vecchia Terra è morta, e l'hanno adagiata nel suo sudario bianco!»
«La Terra si sposa, e questa è la sua veste nuziale» tubavano le Tortore tra di loro. Le loro zampine color di rosa erano tutte morse dal gelo, ma sentivano che era loro dovere considerare la situazione sotto un aspetto romantico.
«Stupidaggini!» brontolò il Lupo. «Vi dico che è tutta colpa del Governo, e se non volete credermi vi mangio!» II Lupo possedeva una mentalità esclusivamente pratica, e non era mai a corto di argomenti.
«Be’, per parte mia,» disse il Picchio, che era filosofo nato «io non ho bisogno che mi si spieghino le cose con dottrine atomistiche: se un fatto e così, e così, e per il momento fa un freddo cane.»
E certamente il freddo era pauroso. Gli Scoiattolini, che abitavano nel cavo dell'alto abete, seguitavano a soffregarsi il naso a vicenda per scaldarsi, e i Conigli si arricciolavano nelle loro buche, e non si azzardavano nemmeno a guardar fuori. Le sole persone che sembravano soddisfattissime erano i grossi Gufi occhialuti. Avevano le penne addirittura rigide a forza di brina, ma non se ne curavano, e facevano roteare i loro grandi occhi gialli, e si chiamavano tra loro per la foresta, «Tu-uiit! Tu-uuu! Tu-uiit! Tu-uuu! Che clima meraviglioso abbiamo!» dicevano.
Intanto i due Spaccalegna proseguivano per la loro strada, alitando energicamente sulle dita il loro fiato caldo, e pestando i grossi scarponi chiodati sulla neve compatta. Una volta sprofondarono in un alto cumulo di neve e ne vennero fuori infarinati come mugnai quando le macine stridono, e una volta scivolarono sul ghiaccio liscio e duro dove l'acqua della marcita era gelata, e le fascine caddero dai loro involti, ed essi dovettero raccoglierle e tornarle a legare insieme di nuovo; e una volta temettero di avere smarrita la strada, e un terribile spavento li colse, poiché sapevano quanto crudele è la Neve per coloro che si addormentano tra le sue braccia. Ma riposero la loro fiducia nel buon San Martino, che ha cura dei viaggiatori, e ritornarono sui loro passi, e camminarono cautamente; infine giunsero al limitare della foresta e videro, lontane lontane nella valle sotto di loro, le luci del villaggio in cui abitavano.
Si rallegrarono talmente al pensiero di essere salvi che risero forte, e la Terra sembrò loro un fiore d'argento, e la Luna un fiore d'oro.
Tuttavia, dopo che ebbero riso si rattristarono, poiché si rammentarono della loro povertà, e l'uno disse all'altro:
«Perché ci siamo rallegrati, dal momento che la vita e fatta per i ricchi, non per gente come noi? Meglio sarebbe stato che fossimo morti di freddo nella foresta, oppure che qualche bestia selvatica ci avesse assaliti e uccisi!».
«Certo» gli rispose il suo compagno «molto è dato ad alcuni, e poco agli altri. L'ingiustizia ha spezzettato il mondo, né esistono parti uguali di nessuna cosa all'infuori del dolore.»
Ma mentre si lamentavano scambievolmente della loro miseria accadde questa cosa strana. Dal cielo cadde una stella, luminosa e bellissima. Scivolò giù dal firmamento, superando le altre stelle nella sua corsa, e mentre gli Spaccalegna la fissavano stupiti, parve ad essi che precipitasse dietro un ciuffo di salici che crescevano dietro un piccolo ovile, a non più di un tiro di sasso di distanza.
«Perbacco! Dopotutto esiste un tesoro per chiunque lo sappia scovare!» esclamarono, e si misero a correre, tanto erano avidi di ricchezza.
E uno dei due corse più forte dell'altro, e lo superò, e penetrò tra i salici e uscì dalla parte opposta, ed ecco! c’era davvero un oggetto d’oro adagiato sulla neve bianca. Perciò egli vi si avvicinò ansioso, si chinò e vi posò sopra le mani, ed era un manto di tessuto d’oro, stranamente trapunto di stelle, e avvolto in molte pieghe. E ad alta voce lo Spaccalegna gridò al compagno di aver trovato il tesoro che era caduto dal cielo, e quando il compagno lo ebbe raggiunto, sedettero insieme nella neve e allentarono le pieghe del mantello onde dividersi il tesoro. Ma, ahimè, esso non conteneva né monete d’oro, né monete d’argento, e in realtà non si trattava affatto di un tesoro, ma soltanto era una piccola creatura addormentata.
E uno dei due disse all’altro: «Amara è questa conclusione delle nostre speranze, e davvero non abbiamo fortuna. Infatti, che profitto porta un bambino a un uomo? Lasciamolo lì e andiamocene per la nostra strada, giacché siamo due poveretti, e abbiamo gia figli nostri e non possiamo sottrargli il pane per darne a un altro».
Ma il suo compagno gli rispose: «No, sarebbe malvagio lasciare questa creatura a perire così nella neve, e malgrado io sia povero quanto te e abbia molte bocche da nutrire, e ben poco in pentola, pure me la porterò a casa con me, e mia moglie ne avrà cura».
Perciò raccolse teneramente il bambino, lo avvolse nel mantello per proteggerlo dal freddo pungente, e si avvio giù per la collina verso il villaggio, mentre il primo Spaccalegna molto si stupiva della avventataggine e della sciocca pietà del compagno.
E quando giunsero al villaggio gli disse: «Tu hai il bambino, perciò dammi il mantello, poiché è giusto che facciamo a mezzo ».
Ma l’altro gli disse: «Niente affatto, poiché il mantello non è ne mio ne tuo, ma del bambino soltanto». E gli augurò la buona notte e si diresse a casa sua e bussò all’uscio.
E quando sua moglie venne ad aprire e vide che il marito le era ritornato sano e salvo, gli buttò le braccia al collo e lo bacio, e gli tolse dalle spalle l’involto di fascine, e gli spazzò via la neve dalle scarpe, e lo pregò di entrare.
Ma egli le disse: «Ho trovato qualcosa nella foresta, e te l'ho portata affinché tu ne abbia cura». E non si mosse dalla soglia.
«Che cos’è?» esclamò la donna. «Mostramela, poiché la casa è spoglia, e abbisognamo di tante tante cose.» Allora lo Spaccalegna rimosse il mantello, e le mostro la creaturina addormentata.
«Ohimé, padre,» mormorò la donna «non abbiamo gia abbastanza figlioli nostri, che tu debba ora portare un trovatello a sedere accanto al focolare? E chi può dire che esso non ci porti sfortuna? E come lo cureremo?» E la donna avvampò di collera contro il capo di casa.
«Ma è un Figlio delle Stelle» disse lo Spaccalegna, e le narrò la strana origine della sua scoperta.
Ma sua moglie non volle udir ragione, e lo schernì, e gli parlò con ira, e gridò: «I nostri bambini non hanno pane a sufficienza, e noi dovremmo nutrire un figliuolo d’altri? Chi provvederà a noi? E chi ci darà cibo?».
«Se Dio ha cura persino dei passeri, e li pasce!» replicò lo Spaccalegna.
«Forse che anche i passeri non muoiono di fame, l’inverno?» ribatté la donna. «E adesso non è inverno, forse?» E 1’uomo non rispose nulla, ma non si mosse dalla soglia.
E una folata di vento gelido irruppe dalla foresta attraverso 1’uscio aperto e la donna rabbrividì e tremò e chiese all’uomo: «Perché non chiudi 1’uscio? Entra un vento pungente, in casa, e io ho freddo».
«In una casa dove un cuore è arido non entra forse sempre un vento amaro? » disse l’uomo. E la donna non rispo¬se nulla, ma si ritrasse più presso al fuoco.
E dopo qualche attimo si volse e lo guardò, e i suoi occhi erano pieni di lagrime. E l’uomo entrò in fretta, e le posò il bambino tra le braccia, ed ella lo baciò, e lo mise nella culla dove il più piccolo dei loro figli dormiva già. E il mattino seguente lo Spaccalegna prese lo strano manto d’oro e lo ripose in un cassone, e sua moglie tolse una collana d’ambra che circondava il collo del bambino e ripose nel cassone anche quella.

Così il Figlio delle Stelle fu allevato con i figlioli dello Spaccalegna, e sedette alla stessa tavola con loro, e divenne il loro compagno di giochi. E ogni anno diventava più bello a vedersi, cosicché tutti coloro che abitavano nel villaggio ne erano pieni di meraviglia, poiché mentre essi erano scuri di pelle e neri di capelli, egli era bianco e delicato come avorio polito, e i suoi riccioli assomigliavano alle anella del narciso selvatico. Pure le sue labbra ricordavano i petali di un rosso fiore, e i suoi occhi erano come le violette che allignano presso i ruscelli d’acque chiare e il suo corpo era simile all’asfodelo, in un prato dove non giunga la falce del mietitore.
E tuttavia la sua bellezza non gli portò bene, poiché egli crebbe orgoglioso, e crudele, ed egoista. Disprezzava i bambini dello Spaccalegna, e gli altri bambini del villaggio e diceva che erano di natali meschini, mentre egli era nobile, poiché era stato generato da una Stella, e prese a tiranneggiarli, e a chiamarli suoi servi. Né provava pietà per i poveri, né per coloro che erano ciechi o infermi o tormentati comunque da qualche afflizione, ma soleva pigliarli a sassate e ricacciarli sulla strada maestra, ordinandogli di andare a mendicare altrove, cosicché nessuno ad eccezione dei fuorilegge si arrischiava a venire due volte al villaggio a chiedere l’elemosina. Era davvero come uno innamorato della bellezza e soleva schernire i deboli e i diseredati dalla sorte, e prendersi beffe di loro; e amava soltanto se stesso, e d’estate, quando i venti tacevano, si coricava presso il pozzo nel giardino del prete e abbassava il capo verso l’acqua, stupendo del proprio viso, e rideva di piacere nella contemplazione della propria bellezza.
Lo Spaccalegna e sua moglie spesso lo rimproveravano e gli dicevano: «Noi non ci siamo comportati con te come tu ti comporti con quelli che sono abbandonati, e non hanno nessuno che li soccorra. Perché dunque sei crudele verso coloro che hanno bisogno di pietà? ».
Spesso il vecchio prete lo mandava a chiamare, e cercava d’insegnargli l’amore per le cose viventi, e gli diceva: «La mosca è tua sorella; non farle male. Gli uccelli selvatici che vagano per la foresta possiedono la libertà. Non irretirli per il tuo divertimento. Iddio ha creato la cecilia e la talpa, e ciascun animale ha la propria dimora. Chi sei tu da arrecare dolore nel mondo di Dio? Persino il bestiame nei campi canta le Sue lodi».
Ma il Figlio delle Stelle non si curava dei loro ammonimenti, e aggrottava la fronte e li dileggiava, e ritornava dai suoi compagni e li bistrattava. E i suoi compagni lo seguivano, poiché era bello, di piede agile, e sapeva danzare, e modulare la zampogna, e far musica. E dovunque il Figlio delle Stelle li guidava essi lo seguivano, e qualunque cosa il Figlio delle Stelle ordinava loro di fare, essi lo facevano. E quando trafiggeva con una canna puntuta gli occhi appannati di una talpa, essi ridevano, e quando scagliava pietre al lebbroso, anche allora ridevano. E in ogni cosa egli li dominava, e anch'essi divennero aridi di cuore al pari di lui.

Ora passò un giorno dal villaggio una vecchia mendicante. Le sue vesti erano strappate e cenciose, i piedi le sanguinavano a forza di camminare sulla dura massicciata della strada, e il suo stato era assai pietoso. E poiché era affaticata sedette sotto un castagno per riposarsi.
Ma non appena il Figlio delle Stelle la vide, disse ai suoi compagni: «Guardate quella sudicia mendicante che siede sotto quel bell’albero dalle verdi foglie. Andiamo, cacciamola via subito di li, che è brutta e sgraziata».
Così le andò vicino e la prese a sassate, e la schernì, ed ella la guardò con gli occhi pieni di terrore, ma non distolse lo sguardo di dosso a lui. E quando lo Spaccalegna che segava ceppi in un cortile lì presso vide ciò che il Figlio delle Stelle stava facendo, accorse e lo rimproverò e gli disse: «Davvero tu sei arido di cuore e non conosci pietà: che male ti ha fatto questa povera donna che tu debba trattarla cosi?».
Ma il Figlio delle Stelle si invermigliò di collera e picchiò i piedi per terra e disse: «Chi sei tu per discutere le mie azioni? Io non sono figlio tuo per dover sottostare ai tuoi comandi!».
« Questo è vero,» rispose lo Spaccalegna « e tuttavia ho avuto pietà di te quando ti ho trovato nella foresta.»
E come la donna intese queste parole lanciò un grande grido e cadde in deliquio. E lo Spaccalegna la trasportò nella sua casa, e sua moglie si prese cura di lei, e quando ella rinvenne dal deliquio in cui era caduta le offrirono cibo e bevanda e la riconfortarono.
Ma ella rifiutò di bere e di mangiare, ma disse allo Spaccalegna: « Non hai tu detto forse che il bambino è stato trovato nella foresta? E non sono forse trascorsi dieci anni da quel giorno?».
E lo Spaccalegna rispose: «Sì, fu nella foresta che io lo trovai, dieci anni da oggi».
«E quali contrassegni recava indosso?» esclamò la donna. « Non portava forse intorno al collo una collana d’ambra, e non era per caso avvolto in un mantello intessuto d’oro e trapunto di stelle?»
«Sì,» replicò lo Spaccalegna «è proprio così come tu dici.» E tolse il mantello e il vezzo d’ambra dal cassone in cui erano riposti, e li mostrò alla donna.
E quando ella li vide pianse di gioia e disse: «E’ lui il mio piccolo figlio che io ho smarrito nella foresta. Ti prego mandamelo subito poiché per andare in cerca di lui ho attraversato il mondo intero».
Perciò lo Spaccalegna e la moglie uscirono fuori e chiamarono il Figlio delle Stelle e gli dissero: «Entra in casa e vi troverai tua madre che ti aspetta».
Allora egli corse in casa, pieno di meraviglia e di grande allegrezza. Ma quando vide colei che lo aspettava ebbe un riso di scherno e disse: «Come! Dov’è mia madre? Poiché io non vedo qui nessuno, all’infuori di questa lurida mendicante ».
E la donna gli rispose: «Sono io tua madre».
«Tu sei pazza a osare di dire questo!» gridò il Figlio delle Stelle con voce irosa. «Io non sono tuo figlio, poiché tu sei una mendicante, e sei brutta e stracciata. Perciò vattene subito, e che io non veda più la tua sudicia faccia.»
«No, no, poiché tu sei veramente la mia piccola creatura, che io ho partorito nella foresta» gridò la donna, e cadde in ginocchio, e gli tese le braccia. «I masnadieri ti rubarono dal mio seno, e ti lasciarono a morire nella foresta» mormorò. «Ma io ti ho riconosciuto non appena ti vidi, e ho riconosciuto anche i tuoi contrassegni, il mantello di tessuto d’oro e la collana d’ambra. Perciò ti prego, vieni con me, poiché da un capo all’altro della terra ho vagato in cerca di te. Vieni con me, figlio mio, poiché io ho bisogno del tuo amore.»
Ma il Figlio delle Stelle non avanzò di un passo, e chiuse contro di lei le porte del suo cuore, né si udiva altro suono fuorché il pianto di dolore della donna.
E alla fine egli le parlò, e la sua voce era dura e amara: « Se in verità tu sei mia madre,» disse « sarebbe meglio che tu te ne fossi restata lontana, anziché venire qui a portarmi vergogna, giacché io credevo di essere il figlio di una Stella, non il figlio di un’accattona, come tu dici che sono. Perciò vattene, e non farti vedere mai più».
«Ahimè, figlio mio,» gridò la donna « non vuoi darmi un bacio prima che io me ne vada? Poiché molto ho sofferto per poterti ritrovare!»
«No,» disse il Figlio delle Stelle «perchè sei così ributtante a guardarsi che preferirei baciare la vipera o il rospo piuttosto che baciare te.»
Così la donna si alzò, e si allontanò nella foresta piangendo, e quando il Figlio delle Stelle vide che se n’era andata, si rallegrò, e corse a raggiungere i suoi compagni poiché voleva giocare con loro.
Ma quando lo videro venire quelli lo schernirono e gli dissero: «Come? Se sei ributtante come il rospo, e disgustoso come la vipera! Vattene, non vogliamo che tu giochi con noi! — E lo spinsero fuori del giardino».
E il Figlio delle Stelle aggrottò la fronte e mormorò tra sé: «Perché mi dicono questo? Andrò al pozzo e mi ci specchierò, ed esso mi parlerà della mia bellezza».
Così andò al pozzo e ci si specchiò, ma ecco! la sua faccia era come la faccia di un rospo, e il suo corpo si era fatto squamoso come il corpo di un serpe. Ed egli si buttò sull’erba e pianse, e si disse: "Certo questo mi è accaduto a causa del mio peccato, perché ho rinnegato mia madre, e l’ho cacciata via, e sono stato orgoglioso e crudele con lei. Perciò me ne andrò e la cercherò da un capo all’altro della terra, né avrò pace finché non 1’avrò ritrovata".
Allora venne da lui la piccola figlia dello Spaccalegna e gli posò una mano sulla spalla e gli disse: «Che importa se hai perduta la tua bellezza? Rimani con noi, e io non ti schernirò».
Ma egli le rispose: « No, poiché sono stato crudele con mia madre, e questa sciagura mi e stata mandata per punirmi. Perciò devo partirmene subito di qui, e andare ramingando per il mondo in cerca di mia madre, e invocare il suo perdono».
Perciò si allontanò di corsa nella foresta e chiamò a gran voce la madre perché tornasse a lui, ma non ebbe risposta. Tutto il giorno la chiamò, e al calar del sole si coricò per dormire su un letto di foglie, e gli uccelli e gli animali fuggirono lontani da lui, poiché si rammentavano della sua crudeltà, ed egli fu solo, fuorché per il rospo che lo spiava e la vipera che gli strisciava pigra accanto.
E il mattino si levò e colse bacche amare dagli alberi e le mangiò, e prese a camminare per il vasto bosco, piangendo perdutamente. E a tutte le cose che incontrava chiedeva se per caso avessero veduta sua madre.
Disse alla Talpa: «Tu sei capace di scendere sotterra. Dimmi, mia madre è lì?».
E la Talpa gli rispose: «Tu mi hai accecati gli occhi: come posso saperlo?».
Disse al Fanello: «Tu sai volare sopra le cime degli alberi più alti, e puoi scorgere l’intero universo. Dimmi, riesci a vedere mia madre?».
E il Fanello gli rispose: «Tu mi hai mozzate le ali per il tuo piacere. Come posso volare?».
E allo Scoiattolino che viveva nell’abete, ed era solo, disse: «Dov’è mia madre?».
E lo Scoiattolo rispose: «Tu mi hai uccisa la mia. Forse cerchi ora di uccidere anche la tua?».
E il Figlio delle Stelle pianse e chinò il capo e chiese perdono alle creature di Dio, e proseguì il suo cammino per la foresta in cerca della vecchia mendica. E al terzo giorno sbucò al capo opposto della foresta e discese nella pianura.
E quando attraversava i villaggi i ragazzi lo schernivano e gli gettavano pietre, e i contadini non gli permettevano di dormire nemmeno nelle stalle, per timore che per la sua presenza il grano ripostovi si coprisse di muffa, tanto ripugnante era a vedersi, e i loro braccianti lo scacciavano, e non vi era nessuno che avesse pietà di lui. Ma in nessun luogo poté saper notizia alcuna della vecchia mendica ch’era sua madre, sebbene per la durata di tre anni andasse ramingo per il mondo, e spesso gli sembrava di vederla sulla strada davanti a sé, e la chiamava, e la rincorreva, fino a che le pietre aguzze gli laceravano i piedi e glieli facevano sanguinare. Ma non riuscì mai a raggiungerla, e coloro che abitavano presso il ciglio delle strade negarono persino di averla mai veduta, o di aver veduta una donna che le assomigliasse, e si facevano beffe del suo dolore. Per la durata di tre anni andò vagando per il mondo, e nel mondo non c’era né amore né caritatevole pietà per lui, ma era proprio un mondo come quello che egli stesso aveva foggiato per il suo piacere al tempo del suo grande orgoglio.

E una sera giunse alle porte di una città turrita che sorgeva in prossimità di un fiume, e affaticato e indolenzito com’era, fece per entrarvi. Ma i soldati di guardia incrociarono le alabarde dinnanzi all’ingresso, e gli chiesero burberamente: «Che affari hai in citta? ».
«Cerco mia madre,» rispose il Figlio delle Stelle «e, vi prego, lasciatemi passare, poiché può essere che ella si trovi in questa città.»
Ma i soldati lo derisero, e uno di loro scosse la barba nera, depose lo scudo ed esclamo: «Davvero che tua madre non sarà contenta quando ti vedrà, poiché sei più sgraziato del rospo della palude, e della vipera che striscia nella marcita. Vattene, vattene! Tua madre non abita in questa città ».
E un altro che reggeva nella mano uno stendardo giallo gli disse: «Chi è tua madre, e per quale motivo vai in cerca di lei?».
E il Figlio delle Stelle gli rispose: «Mia madre è una mendicante al pari di me, e io l’ho trattata crudelmente, perciò ti prego, lasciami passare che io possa chiederle di perdonarmi, se per caso ella ha indugiato in questa città ». Ma i soldati non gli permisero di entrare, e lo punzecchiarono con le loro lance.
E mentre il Figlio delle Stelle si allontanava piangendo, un uomo la cui armatura era cesellata a fiori d’oro, e sul cui elmo stava accovacciato un leone alato, si avvicinò e s’informò dai soldati chi era colui che aveva domandato di essere ammesso entro le mura della città. E quelli gli risposero: «E’ un mendicante, figlio di una mendicante, e noi lo abbiamo scacciato».
«Non fatelo!» gridò 1’uomo ridendo. «Venderemo quell’essere ributtante come schiavo, e il suo prezzo sarà il prezzo di una ciotola di vino dolce.»
E un vecchio dal volto malvagio che passava di là chiamò forte e disse: «Lo comprerò io per quel prezzo». E quando ebbe pagato il prezzo pattuito prese per mano il Figlio delle Stelle e lo condusse entro la città.
E dopo essere passati per molte strade giunsero a una porticina incastrata in un muro che era ricoperto da un albero di melograno. E il vecchio toccò la porta con un anello di diaspro inciso e la porta si aprì, ed essi scesero giù per cinque gradini di bronzo in un giardino colmo di papaveri neri e di giare verdi di terra cotta al sole. E il vecchio si tolse allora dal turbante una sciarpa di seta a figure e con quella bendò gli occhi del Figlio delle Stelle, e lo spinse dinnanzi a sé. E quando gli fu tolta la benda dagli occhi il Figlio delle Stelle si trovò in un sotterraneo di prigione, che era rischiarato da una lampada di corno.
E il vecchio gli pose davanti del pane muffito su un tagliere e gli disse: «Mangia!». E dell’acqua salmastra in una tazza e gli disse: «Bevi». E quando il Figlio delle Stelle ebbe mangiato e bevuto il vecchio uscì, chiudendo l’uscio a chiave dietro di sé e sprangandolo con una catena di ferro.

E il giorno seguente il vecchio, che in realtà era il più astuto mago della Libia e aveva appreso la sua arte da uno che viveva nelle tombe del Nilo, entrò da lui e corrugò la fronte e disse: «In un bosco vicino ai cancelli di questa città di Giaurro vi sono tre monete d’oro. Una è di oro bianco, la seconda di oro giallo, e la terza di oro rosso. Quest’oggi tu mi porterai la moneta d’oro bianco, e se non me la porterai io ti batterò con cento scudisciate. Vattene presto, e al tramonto ti aspetterò alla porta del giardino. Bada di portarmi l’oro bianco, che altrimenti sarà un guaio per te, poiché tu sei il mio schiavo, e io ti ho comprato per il prezzo di una ciotola di vino dolce ». E bendò gli occhi del Figlio delle Stelle con la fascia di seta a figure, e lo condusse attraverso la casa, e attraverso il giardino di papaveri, e su per i cinque gradini di bronzo. E dopo avere aperto l’usciolo con l’anello lo mandò fuori nella strada.

E il Figlio delle Stelle uscì dalle porte della città, e giunse al bosco di cui il Mago gli aveva parlato.
Ora questo bosco era bellissimo a vedersi dal di fuori, e pareva tutto pieno di uccelli canori e di fiori dal dolce profumo, e il Figlio delle Stelle vi entrò con gioia. Ma quella bellezza poco gli giovò, poiché dovunque andava subito pruni e sterpi sprizzavano su dal suolo e lo circondavano, e ortiche malvagie lo pungevano, e il cardo lo trafiggeva coi suoi aculei, cosicché egli si trovò in disperata angoscia. Né gli fu possibile trovare in alcun luogo la moneta d’oro bianco di cui il Mago gli aveva parlato, per quanto la cercasse dall’alba al mezzogiorno e dal mezzogiorno al tramonto. E al tramonto si avviò verso casa piangendo amaramente, poiché sapeva quale sorte era in serbo per lui.
Ma quando fu giunto al limitare del bosco intese giungere da un cespuglio un grido, simile a un grido di creatura in pena. Allora, dimenticando il proprio dolore, corse indietro e vide un Leprotto che si era impigliato in una tagliola che qualche cacciatore gli aveva tesa.
E il Figlio delle Stelle ne ebbe pietà, e lo liberò e gli disse: « Benché io stesso non sia che uno schiavo, tuttavia posso ridarti la tua libertà».
E il Lepre gli rispose e disse: «Sì, tu la libertà me l’hai ridata; che cosa posso darti io in cambio?».
E il Figlio delle Stelle gli disse: «Sto cercando una moneta di oro bianco, né riesco a trovarla in alcun luogo, e se non la porto al mio padrone egli mi percuoterà».
«Vieni con me,» disse il Lepre «e io ti condurrò nel posto giusto, poiché so dove è nascosta, e per quale scopo.»
Così il Figlio delle Stelle seguì il Lepre, ed ecco, nella fenditura di una grande quercia, vide la moneta d’oro bianco che cercava. E una viva gioia lo invase, e afferrò la moneta, e disse al Lepre: «Il servigio che io ti ho reso tu me lo hai restituito cento volte e la bontà che ti ho dimostrata me l’hai ripagata a iosa».
«No,» disse il Lepre «poiché come tu hai trattato con me, così ho trattato io con te.» E con queste parole sfrecciò via veloce, e il Figlio delle Stelle si avviò verso la città.
Ora presso la porta della città era seduto un lebbroso. II suo volto era ricoperto da un cappuccio di lino grigio, e attraverso le fenditure praticate perché potesse vedere, le pupille gli lucevano come carboni ardenti. E come vide venire il Figlio delle Stelle, picchiò su una ciotola di legno, e agito il suo campanello e lo chiamò e disse: «Dammi una moneta, o io morrò di fame, poiché mi hanno scacciato dalla città, e non vi è nessuno che abbia pietà di me».
«Ahimè!» gridò il Figlio delle Stelle. «Non ho che un’unica moneta nella mia bisaccia, e se non la porto al mio padrone egli mi batterà, poiché io sono il suo schiavo.»
Ma il lebbroso lo supplicò e lo implorò, finché il Figlio delle Stelle ne ebbe pietà e gli diede la moneta d’oro bianco.
E quando giunse alla casa del Mago, costui gli aperse e lo condusse dentro e gli chiese: «Hai la moneta di oro bianco? ». E il Figlio delle Stelle rispose: «Non l’ho». Allora il Mago si buttò su di lui e lo percosse, e gli pose dinnanzi il tagliere vuoto e gli disse: «Mangia!». E una tazza vuota, e gli disse: «Bevi!». E lo ricacciò nel sotterraneo.
E il mattino seguente il Mago venne da lui e gli disse: «Se quest’oggi tu non mi porterai la moneta di oro giallo, per certo io ti terrò come mio schiavo, e ti darò trecento sferzate ».
Così il Figlio delle Stelle si recò nel bosco, e tutto il giorno frugò in cerca della moneta di oro giallo, ma in nessun luogo poté trovarla. E al tramonto si sedette e incominciò a piangere, e mentre piangeva venne da lui il Leprotto che egli aveva salvato dalla tagliola.
E il Lepre gli disse: «Perché piangi? E che cosa cerchi nel bosco? ».
E il Figlio delle Stelle gli rispose: «Cerco una moneta di oro giallo che è nascosta qui, e se non la trovo il mio padrone mi batterà e mi terrà come suo schiavo».
«Seguimi!» gridò il Lepre, e corse per il bosco finché giunse a una polla d’acqua. E in fondo alla polla d’acqua c’era la moneta di oro giallo.
«Come potrò ringraziati?» disse il Figlio delle Stelle. « Perché, ecco! questa è la seconda volta che tu mi hai soccorso.»
«Tu hai avuto pietà di me la prima volta» disse il Lepre, e saettò via veloce.
E il Figlio delle Stelle prese la moneta d’oro giallo, e la ripose nella sua bisaccia, e si affrettò verso la città. Ma il lebbroso lo vide venire e gli corse incontro e gli si inginocchiò davanti e gridò: «Dammi una moneta o altrimenti io morrò di fame».
E il Figlio delle Stelle gli disse: «Non ho nella mia bisac¬cia che un’unica moneta d’oro giallo, e se non la porto al mio padrone egli mi batterà e mi terra come suo schiavo».
Ma il lebbroso lo scongiurò così disperatamente che alla fine il Figlio delle Stelle ebbe pietà di lui, e gli diede la moneta d’oro giallo.
E quando giunse alla casa del Mago, questi gli aperse e lo condusse dentro e gli chiese: «Hai la moneta d’oro giallo? ». E il Figlio delle Stelle disse: «Non l’ho». Allora il Mago si buttò su di lui e lo percosse, e lo caricò di catene e lo cacciò nel sotterraneo buio.
E il mattino seguente il Mago venne da lui e gli disse: «Se oggi tu mi porterai la moneta di oro rosso io ti lascerò libero, ma se tu non me la porterai io ti ucciderò».
Così il Figlio delle Stelle si recò nel bosco, e tutto il giorno frugò in cerca della moneta di oro rosso, ma in nessun luogo poté trovarla. E a sera si sedette e pianse, e mentre piangeva venne da lui il Leprotto.
E il Lepre gli disse: «La moneta d’oro rosso che tu cerchi si trova nella caverna alle tue spalle. Perciò non piangere più, ma sii contento».
«Come potrò ricompensarti?» esclamò il Figlio delle Stelle. «Poiché questa e la terza volta che tu mi soccorri.»
«Tu hai avuto pietà di me la prima volta» disse il Lepre, e si allontanò di corsa.
E il Figlio delle Stelle entrò nella caverna, e nell’angolo più riposto di essa trovò la moneta d’oro rosso. Così la ripose nella sua bisaccia, e si affrettò verso la città. E il lebbroso, come lo vide venire, si fermò nel mezzo della via e lo chiamò a gran voce e gli disse: «Dammi la moneta d’oro rosso, o io morirò». E il Figlio delle Stelle di nuovo ne ebbe pietà, e gli diede la moneta d’oro rosso dicendo: «Il tuo bisogno è maggiore del mio». E nondimeno il suo cuore era grave, poiché sapeva quale destino amaro lo attendeva.

Ma ecco! Mentre oltrepassava la porta della città le guardie s’inchinarono e gli resero omaggio dicendo: «Come è bello il nostro signore!». E una folla di cittadini lo seguirono, e gridavano a gran voce: «Non vi è nessuno più bello di lui al mondo!». Tanto che il Figlio delle Stelle pianse e si disse: «Mi scherniscono, e si fanno beffe della mia infelicità». Ma così grande era il concorso di popolo che smarrì la via, e si trovò alla fine in una gran piazza, dove sorgeva il palazzo di un Re.
E le porte del palazzo si spalancarono e i sacerdoti e gli alti dignitari della città ne uscirono a incontrarlo, e si prosternarono davanti a lui dicendo: «Tu sei il nostro signore, colui che aspettavamo, il figlio del nostro Re».
Ma il Figlio delle Stelle rispose loro: «Io non sono figlio di re, sono il figlio di una povera mendicante. E perché dite che sono bello, poiché so di essere ripugnante a vedersi?».
Allora colui la cui armatura era cesellata a fiori d’oro e sul cui elmo stava accovacciato un leone alato gli tese uno scudo a mo’ di specchio ed esclamò: «Come può il mio signore affermare di non essere bello? ».
E il Figlio delle Stelle si specchiò, ed ecco che il suo volto era ritornato liscio come un tempo, e la sua avvenenza era divenuta ancora più perfetta, ed egli scorse nei suoi occhi qualcosa che non vi aveva mai veduta prima.
E i sacerdoti e gli alti dignitari gli si inginocchiarono davanti e gli dissero «Fu profetizzato in antico che in questo giorno sarebbe venuto colui che ci avrebbe governati. Perciò vogliamo che il nostro signore accetti questa corona e questo scettro e regni sopra di noi con la sua giustizia e la sua pietà».
Ma egli rispose loro: «Non ne sono degno, poiché ho rinnegato mia madre che mi ha generato, ne avrò pace finché non l’avrò ritrovata e non avrò ottenuto il suo perdono. Perciò lasciatemi andare, poiché devo nuovamente errare per il mondo e non posso indugiare qui, anche se voi mi offrite la corona e lo scettro». E così dicendo distolse il viso da essi e guardò in direzione della via che conduceva alle porte della città. Ed ecco che tra la folla che si accalcava intorno ai soldati vide la mendicante che era sua madre, e al suo fianco stava il lebbroso che egli aveva incontrato per tre volte lungo il ciglio della strada.
E un grido di gioia proruppe dalle sue labbra, ed egli corse tra la folla e si inginocchiò a baciare le ferite che piagavano i piedi di sua madre e le bagnò delle sue lacrime. Piegò il capo nella polvere e singhiozzando come colui il cui cuore è spezzato disse: «Madre, ti ho rinnegata nell’ora del mio orgoglio. Accettami nell’ora della mia umiliazione. Madre, io ti ho dato odio: dammi tu amore. Madre, io ti ho respinta. Ricevi tu ora il tuo figliuolo». Ma la mendicante non gli diede risposta.
Allora egli protese le mani e abbracciò i bianchi piedi del lebbroso, e gli disse: «Tre volte ti ho dimostrato misericordia: chiedi a mia madre di parlarmi, almeno una sola volta». Ma il lebbroso non proferì parola.
Allora egli pianse disperatamente e disse: «Madre, la mia pena è troppo forte perché io la possa sopportare. Dammi il tuo perdono, e lasciami ritornare nella foresta». Allora la mendicante gli posò una mano sul capo, e gli disse: «Alzati». E a sua volta anche il lebbroso gli posò una mano sul capo e gli disse: «Alzati».
Ed egli si levò in piedi e lì guardò, e, o meraviglia!, davanti a se vide un Re e una Regina.
E la Regina gli disse: «Questo è tuo padre che tu hai aiutato».
E il Re disse: «Questa è tua madre cui hai lavati i piedi con le tue lagrime».
E lo baciarono e abbracciarono, e lo condussero nel palazzo e lo coprirono di splendide vesti e gli posarono la corona sul capo, e gli misero lo scettro tra le mani, ed egli regnò sulla città che sorgeva presso il fiume e vi signoreggio. A tutti dimostrò grande giustizia e misericordia: bandì il cattivo Mago e inviò molti doni allo Spaccalegna e a sua moglie, e ai loro figliuoli distribuì grandi onori. Né permise che alcuno usasse crudeltà ad animali od uccelli, ma insegno l’amore la bontà la carità: ai poveri diede cibo, agli ignudi vestimento, e in tutto il paese vi fu pace e abbondanza.
Tuttavia breve fu il suo regno, poiché troppo intenso era stato il suo patimento, e troppo addentro lo aveva bruciato il fuoco dell’espiazione, cosicché in capo a tre anni morì. E il Re che venne dopo di lui governò spietatamente.




IL GIOVANE RE di Oscar Wilde

Era la notte precedente al giorno fissato per l’incoronazione, e il Giovane Re era seduto, solo, nella sua splendida camera. Il fanciullo, poiché tale egli era, aveva solo sedici anni, non era affatto dispiaciuto che se ne fossero andati, e s’era lasciato cadere con un gran sospiro di sollievo sui morbidi cuscini del suo giaciglio ricoperto di ricche coltri; ora giaceva lì, gli occhi selvaggi e la bocca dischiusa, simile a un giovane animale della foresta insidiato dai cacciatori.
E in verità erano stati proprio dei cacciatori a trovarlo, incontrandolo quasi per caso mentre lui, seminudo e con la zampogna in mano, guidava il gregge del povero capraio che lo aveva allevato e di cui s’era sempre creduto figlio. Il figlio dell’unica figlia del Re, nato da un matrimonio segreto con un uomo di ceto inferiore (uno straniero, secondo alcuni, che aveva fatto innamorare la figlia del Re per la sua straordinaria bravura nel suonare il liuto; secondo altri un artista di Rimini, a cui la Principessa aveva concesso molto, forse troppo onore, e che successivamente era scomparso dalla città lasciando incompiuto il suo lavoro alla Cattedrale) era stato sottratto alla madre, ancora in fasce, mentre lei dormiva, e affidato alle cure di un umile pastore e di sua moglie, una coppia senza figli che viveva in un angolo remoto della foresta, distante dalla città più di un giorno di viaggio. Un paio d’ore dopo il risveglio, la candida fanciulla che gli aveva dato la vita era morta; non si seppe mai se di dolore, di peste come asserì il Medico di Corte o, come insinuarono altri, a opera di un possente veleno italiano discialto in una coppa di vino speziato. Di fatto, nello stesso momento in cui il fido scudiero che portava il bimbo in arcione smontava di sella dal suo cavallo esausto per bussare alla rustica porta della capanna del capraio, il corpo della Principessa veniva calato in una tomba aperta che era stata scavata in un camposanto deserto, oltre le porte della città, una tomba dove si diceva giacesse un altro corpo, quello di un giovane di meravigliosa ed esotica bellezza, dalle mani legate dietro la schiena con una corda annodata, e dal petto trafitto da molte rosse ferite di pugnale.
Questa, almeno, era la storia che si sussurravano l’un l’altro gli uomini della contea. Di fatto, il vecchio Re, sul suo letto di morte, o spinto dal rimorso per la sua grave colpa o semplicemente desideroso che il regno fosse conservato a un membro della sua famiglia, aveva mandato a chiamare il fanciullo e, alla presenza del Consiglio, lo aveva nominato suo erede.

Fin dal primo istante del suo riconoscimento egli parve rivelare i segni di un singolare amore per la bellezza, una passione che avrebbe influito molto su tutta la sua vita. Coloro che l’avevano scortato agli appartamenti messi a sua disposizione parlarono spesso del grido di piacere che gli proruppe dalle labbra alla vista degli abiti leggiadri e dei prezio¬si gioielli preparati per lui, e della gioia quasi feroce con cui gettò via da sé la sua rozza tunica di cuoio e il grossolano mantello di pelle di pecora. (…)
Tutte le cose rare e preziose esercitavano un grande fascino su di lui, e nella sua smania di procurarsene aveva mandato molti mercanti in lande remote, alcuni a trafficare ambra coi rozzi pescatori dei mari nordici, altri in Egitto, alla ricerca della mitica turchese verde che si trova solo nelle tombe dei re e si dice sia dotata di proprietà magiche, altri in Persia ad acquistare tappeti serici e vasellame dipinto, altri ancora in India per tornarne carichi di avorio istoriato, pietre di luna e bracciali di giada, legno di sandalo e smalti azzurri, veli e scialli di lana pregiata.
Ma la cura che lo aveva tenuto più d’ogni altra occupato era stata la preparazione del vestito di gala da indossare per l’incoronazione, il manto laminato d’oro, e la corona tempestata di rubini, e lo scettro con le sue perle intrecciate a file e a cerchi. Principalmente a questo stava egli pensando quella notte, mentre guardava il grosso ceppo di pino ardere sotto la cappa del camino. (…) Quando dall’orologio della torre risuonò la mezzanotte, egli toccò un campanello, e i suoi paggi entrarono e lo svestirono con molte cerimo¬nie, spruzzandogli acqua di rosa sulle mani e cospargendo di fiori i guanciali. Poco dopo che ebbero lasciato la stanza, il fanciullo si addormentò.
E mentre dormiva fu visitato in sogno da visioni. E queste furono le sue visioni.
Si vide in una soffitta lunga e bassa, in mezzo al ronzio e allo strepito di molti telai. La luce del giorno trapelava scialba dalle inferriate delle finestre, mostrandogli le sagome magre dei tessitori chini sulle loro trame. Bimbi pallidi, dall’aria sofferente, stavano rannicchiati sulle enormi travi del soffitto. Quando le spole saettavano attraverso l’ordito, i tessitori sollevavano i pesanti battenti di legno, e quando le spole si arrestavano li lasciavano cadere e comprimevano i fili. I loro volti erano scavati dal digiuno e le loro mani scarne tremavano convulsamente. Alcune donne sparute sedevano dinanzi a un tavolo a cucire. Un atroce fetore riempiva il locale. L’aria era putrida e greve; le pareti gocciolavano trasudando umidità.
Il Giovane Re si accostò a uno dei tessitori, sostò accanto a lui e lo ossenò. E il tessitore gli rivolse uno sguardo bieco e disse: «Perché stai qui a fissarmi? Sei una spia mandata dal nostro padrone?».
«Chi è il tuo padrone?», chiese il Giovane Re.
«Il nostro padrone!», esclamò amaramente il tessitore «E’ un uomo come me. Fra noi c’è una sola differenza: che lui indossa vesti pregiate e io vado in giro coperto di stracci, che io sono debole per la fame e lui soffre invece per eccesso di nutrizione.»
«Questo è un paese libero», disse il Giovane Re, «e tu non sei schiavo di nessuno.»
«In guerra», rispose il tessitore, «i più forti fanno schiavi i più deboli, e in pace i ricchi fanno schiavi i poveri. Dobbiamo lavorare per vivere, e il nostro salario è così misero che moriamo. Noi fatichiamo tutto il giorno per loro, ed essi ammucchiano l’oro nei forzieri, i nostri figli avvizziscono prima del tempo, e i visi di coloro che amiamo diventano duri e cattivi. Noi pigiamo l’uva, e un altro beve il vino. Noi seminiamo il grano, e la nostra madia è vuota. Noi portiamo catene, anche se nessun occhio le vede; e siamo schiavi, anche se gli uomini ci chiamano liberi.»
«E’ così per tutti?», chiese il Giovane Re.
«E così per tutti», rispose il tessitore, «per i giovani come per i vecchi, per le donne come per gli uomini, per i bimbi come per coloro che sono oppressi dagli anni. I mercanti ci sfruttano, e noi siamo costretti dalla necessità a piegarci ai loro ordini. Il prete ci sorpassa a cavallo e sgrana il suo rosario, e nessuno si dà cura di noi. Per i nostri vicoli senza sole striscia la Povertà coi suoi occhi famelici, e la segue dappresso la Colpa dal volto terreo. Al mattino è la Miseria che ci sveglia e di notte ci fa compagnia la Vergogna. Ma a te cosa possono importare queste tristezze? Tu non sei uno di noi. Il tuo viso è troppo felice.» E si volse dall’altra parte accigliato, e gettò la spola nell’ordito, e il Giovane Re vide che i fili della trama erano d’oro.
E un grande terrore lo afferrò, e chiese al tessitore: «Che vestito è quello che stai tessendo?».
«E’ il vestito per l’incoronazione del Giovane Re», rispose il tessitore, «ma a te che importa?»
E il Giovane Re gettò un grido acuto e si destò, ed ecco, era nella sua stanza, e dalla finestra gli apparve la luna color miele, sospesa nell’aria del crepuscolo.
E si riaddormentò e di nuovo fu visitato da visioni, e queste furono le sue visioni.
Si vide disteso sul ponte di una enorme galea, che avanzava spinta dai remi di cento schiavi. Su un tappeto accanto a lui sedeva il capitano della galea. Era nero come l’ebano, e il suo turbante era di seta cremisi. Grandi anelli d’argento pendevano dagli spessi lobi delle orecchie, e nelle mani reggeva una bilancia d’avorio.
Gli schiavi erano nudi, avevano solo uno straccio intorno ai lombi, e ognunò era incatenato al suo vicino. Il sole picchiava rovente, e i negri correndo su e giù lungo il ponte li sferzavano con scudisci di cuoio. Le braccia scarnite si tendevano affondando i remi pesanti nell’acqua. Spruzzi salati volavano dalle pale. (…)
A mezzogiorno avevano gettato l’ancora e ammainato la vela. I negri entrarono nella stiva e ne estrassero una lunga scala di corda, appesantita da grossi pezzi di piombo. Il capitano la gettò su un fianco della nave, fissandone l’estremità a due uncini di ferro. Poi i negri agguantarono il più giovane degli schiavi e dopo averlo liberato dalle catene, gli riempirono di cera narici e orecchie, e gli attaccarono una grossa pietra alla cintola. Egli si lasciò scivolare faticosamente giù per la scala, e scomparve nel mare. Poche bollicine salirono a fior d’acqua là dove s’era immerso. Dal parapetto della galea altri schiavi sogguardavano incuriositi. A prua sedeva un incantatore di squali che percuoteva monotono un tamburo.
Dopo qualche tempo il tuffatore riemerse, e si aggrappò ansimante alla scala con una perla nella mano destra. I negri gliela strapparono e lo respinsero di nuovo in acqua. Gli schiavi si assopirono sui remi.
Più e più volte il tuffatore riapparve a fior d’acqua, e ogni volta recava nella mano una bellissima perla. Il capitano le pesava e le riponeva in un sacchetto di cuoio verde.
Il Giovane Re avrebbe voluto parlare, ma la sua lingua sembrava aderire al palato, e le labbra si rifiutavano di muoversi. I negri parlottavano fra loro, e cominciarono a litigare per una collana di perline colorate. Due cicogne continuavano a volare intorno al vascello.
Allora il tuffatore riemerse per l’ultima volta, e la perla che recava nella mano era più bella di tutte le perle di Ormuz, poiché aveva la forma della luna piena ed era più bianca della stella del mattino. Ma il volto dello schiavo s’era fatto stranamente pallido, e quando s’abbatté sulla tolda il sangue gli sgorgò da nari e orecchie. Per un poco fu squassato da brividi convulsi, poi rimase immobile. I negri alzarono le spalle, e gettarono il corpo in mare.
E il capitano della galea rise, e la sua mano avida afferrò la perla e dopo averla osservata se la premette contro la fronte e s’inchinò. «E destinata», disse, «allo scettro del Giovane Re», e fece cenno ai negri di sollevare l’ancora.
E quando il Giovane Re udì quelle parole gettò un grido acuto, e si svegliò, e dalla finestra vide le lunghe dita grigie dell’alba ghermire le stelle che Si dileguavano.
E si riaddormentò e di nuovo fu visitato da visioni, e queste furono le sue visioni.
Si vide errare in un bosco tenebroso, pieno di strani frutti e di bellissimi fiori velenosi. Al suo passaggio sibilavano vipere, e variopinti pappagalli volavano stridendo di ramo in ramo. Enormi tartarughe giacevano attonite sul fango bollente. Gli alberi erano popolati di scimmie e di pavoni.
Ed egli procedeva innanzi, finché giunse all’estremo lembo del bosco, e qui vide un’immensa moltitudine di uomini che si agitavano sul letto di un fiume prosciugato. Formicolando nei crepacci, essi scavavano pozzi profondi e vi scendevano dentro. Alcuni spaccavano la roccia con grandi scuri; altri frugavano nella sabbia. Sradicavano i cactus e ne calpestavano i fiori scarlatti. Correvano qua e là, lanciandosi richiami, e nessuno stava in ozio.
Dalle tenebre di una caverna Morte e Avarizia li scrutavano, e Morte disse: «Io sono stanca; dammi un terzo di quella gente e lasciami andare».
Ma Avarizia scosse il capo. «Sono i miei servi», rispose.
E Morte le chiese: «Che hai in mano?».
«Ho tre chicchi di grano», rispose quella. «Ma a te che importa?»
«Dammene uno», pregò Morte, «per piantarlo nel mio giardino; uno solo, e me ne andro.»
«Non ti darò nulla», disse Avarizia, e si nascose la mano nel lembo della veste.
E Morte rise, e prese una coppa, e la immerse nell’acqua di una pozza, e dalla coppa si levò Malaria. Costei passò in mezzo alla grande moltitudine, e un terzo di questa giacque morta. Una nebbia fredda la seguiva, e bisce acquatiche le facevano corteo.
E quando Avarizia vide che un terzo della moltitudine era morta, si picchiò il petto e pianse. Si picchiò il petto nudo, e urlava: «Hai ucciso un terzo dei miei servi. Va’ via di qui! C’è la guerra sui monti della Tartaria, e i re di entrambe le parti ti invocano. Gli Afgani hanno ucciso il bue nero, e marciano in battaglia. Hanno picchiato con le lance sugli scudi e si sono messi gli elmetti di ferro. Che te ne fai della mia vallata, perché vi indugi? Vattene, e non tornare più».
«No», rispose Morte, «finché non mi avrai dato un chicco di grano non me ne andrò.»
Ma Avarizia chiuse la mano, e serrò i denti. «Non ti darò nulla», mormorò.
E Morte rise, e raccolse una pietra nera, e la scagliò nella foresta, e da un cespuglio di cicuta selvatica balzò fuori Febbre avvolta in una veste di fuoco. Passò attraverso la moltitudine, e toccò gli uomini, e ogni uomo da lei toccato cadeva morto. L’erba avvizziva sotto il suo passo.
E Avarizia rabbrividì, e si coprì il capo di cenere. «Sei crudele», gridò, «sei crudele! C’è la carestia nelle città dell’lndia recinte di mura, e le cisterne di Samarcanda sono asciutte. Il Nilo non è straripato dagli argini, e i sacerdoti hanno maledetto Iside e Osiride. Vattene da chi ha bisogno di te, e lasciami i miei servi.»
«No», rispose Morte, «finché non mi avrai dato un chicco di grano non me ne andrò.»
«Non ti darò nulla», disse Avarizia.
E Morte rise nuovamente, e fischiò fra le dita, e volando attraverso l’aria venne una donna. Sulla fronte aveva scritto Peste, e intorno le vorticava uno stormo di macilenti avvoltoi. Essa spiegò le ali a coprire la vallata, e nessuno rimase vivo.
E Avarizia fuggì urlando attraverso la foresta, e Morte balzò sul suo cavallo rosso e galoppò via, e il suo galoppo era più veloce del vento.
E dalla melma del fondovalle uscirono strisciando draghi e orribili mostri squamosi, e gli sciacalli giunsero al trotto sulla sabbia, fiutando l’aria con le narici.
E il Giovane Re proruppe in pianto, e chiese: «Chi erano quegli uomini, e cosa andavano cercando?».
«Cercavano rubini per la corona di un re», rispose uno che gli stava alle spalle.
E il Giovane Re trasalì, e, voltandosi, vide un uomo in abito da pellegrino, con uno specchio d’argento in mano.
E impallidì, e chiese: «Di quale re?».
E il pellegrino rispose: «Guarda in questo specchio, e lo vedrai».
Ed egli guardò nello specchio, e, vedendo il proprio volto, gettò un grido acuto e si svegliò, e la fulgida luce del giorno invadeva già la stanza, e dagli alberi del giardino incantato gorgheggiavano gli uccelli. E il Ciambellano e gli altri dignitari di Stato entrarono a rendergli omaggio, e i paggi gli recarono la veste di gala laminata d’oro e gli porsero la corona e lo scettro.
E il Giovane Re, posandovi lo sguardo, li vide più belli che mai, più splendidi di qualsiasi cosa avesse mai visto. Ma egli si ricordò dei suoi sogni, e disse ai nobili: «Portate via queste cose, perché io non le metterò». E i cortigiani rimasero stupefatti, e alcuni di loro risero, pensando ch’egli facesse per celia.
Ma egli parlò di nuovo seriamente, e disse: «Portate via queste cose, e nascondetele al mio sguardo. Anche se è il giorno della mia incoronazione, io non le metterò. Poiché sul telaio del Dolore, e dalle bianche mani della Sofferenza, questa mia veste è stata intessuta. C’è Sangue nel cuore del rubino e Morte nel cuore della perla». E narrò loro dei suoi tre sogni.
E quando i cortigiani ebbero ascoltato, si guardarono l’un l’altro e mormorarono: «Di certo è pazzo; perché cos’è mai un sogno se non un sogno, e cos’è una visione se non una visione? Non sono cose reali, per cui ci si debba preoccupare. E che abbiamo mai a che fare, noi, con la vita di quelli che lavorano per noi? Non si dovrà mangiar pane, allora, finché non si è veduto il seminatore, né bere vino finché non si è parlato col vignaiolo?».
E il Ciambellano si rivolse al Giovane Re: «Mio Signore, ti prego di stornare da te questi pensieri cupi, e di indossare questa splendida veste, e porre sul tuo capo la corona. Infatti, come potrà il popolo sapere che sei il re, se non indosserai le vesti regali?».
E il Giovane Re lo guardò. «E’ così dunque?», gli chiese. «Non mi riconosceranno come re, se non indosserò le vesti regali?»
«Non ti riconosceranno, mio signore», ribadì il Ciambellano.
«Io credevo che vi fossero uomini regali», rispose, «ma sarà come tu dici. Comunque, io non indosserò queste vesti, né mi porrò in capo questa corona, e come sono entrato al palazzo, così ne uscirò.»
E ordinò a tutti di lasciarlo, a eccezione di un paggio che tenne come compagno, un giovinetto di un anno minore di lui. Costui scelse come suo personale valletto, e quando si fu deterso le membra in acqua chiara, aprì una cassapanca dipinta e ne estrasse la tunica di cuoio e il rozzo mantello di pelle di pecora che portava quando custodiva le irsute capre del capraio. Queste vesti indossò, e nella mano strinse il suo rude bastone da pastore.
E il piccolo paggio spalancò i suoi grandi occhi azzurri, e disse sorridendogli: «O mio signore, vedo il tuo manto e il tuo scettro, ma dov’è la tua corona?».
E il Giovane Re spiccò un ramo di edera selvatica che si arrampicava sul balcone e, piegandolo, ne fece un serto e se lo pose in capo.
Questa sarà la mia corona», rispose. (…)
E quando giunse alle soglie maestose della cattedrale, i soldati gli puntarono contro le alabarde e dissero: «Che cosa vuoi tu qui? Da questa porta nessuno può entrare eccetto il Re».
E il suo volto si accese di collera, e disse loro: «Io sono il Re», e scostò le alabarde e passò.
E quando il vecchio Vescovo lo vide entrare vestito da capraio, si levò sbalordito dal suo trono, e gli andò incontro, e disse: «Figlio mio, è forse questo l’abbigliamento di un re? E con quale corona ti incoronerò, e quale scettro metterò nella tua mano? In verità questo dovrebbe essere per te un giorno di gioia, non di avvilimento».
«E dovrà dunque Gioia indossare il vestito che ha foggiato Dolore?», disse il Giovane Re. E gli narrò dei suoi tre sogni.
E quando il Vescovo l’ebbe ascoltato aggrottò la fronte, e disse: «Figliolo, io sono vecchio, e nell’inverno dei miei giorni, e so che nel vasto mondo c’è tanta malvagità. Feroci briganti scendono dalle montagne a rapire i bambini, e li vendono ai Mori. I leoni stanno in agguato, spiando le carovane, e si awentano sui cammelli. Il cinghiale sradica il grano nella valle, e le volpi rodono le viti sul colle. I pirati devastano le rive del mare, e bruciano le barche dei pescatori, e si portano via le reti. Nelle paludi salate vivono i lebbrosi; hanno case intrecciate di giunchi, e nessuno vi si può avvicinare. I mendicanti vagano per le città, e mangiano insieme ai cani. In che modo potrai impedire che queste cose accadano? Prenderai nel tuo letto il lebbroso e accoglierai alla tua mensa il mendicante? Il leone ubbidirà al tuo cenno, e il cinghiale ti asseconderà? Non è più saggio di te Colui che ha creato la miseria? Perciò io non ti lodo per quel che hai fatto, ma ti prego di tornare al tuo Palazzo e rallegrarti in volto, e mettere la veste che si addice a un Re, e con la corona d’oro io ti incoronerò, e lo scettro di perle porrò nella tua mano. Quanto ai tuoi sogni, non pensarci più. Il fardello di questo mondo è troppo pesante perché un uomo possa reggerlo, e il dolore del mondo troppo grande perché il cuore di un uomo possa sopportarlo».
«E tu dici ciò in questa casa?»; chiese il Giovane Re; e passò oltre il Vescovo, e salì i gradini dell’altare, e si fermò di fronte all’immagine di Cristo.
Si fermò di fronte all’immagine di Cristo, e alla sua destra e alla sua sinistra erano i meravigliosi vasi d’oro, il calice del vino dorato, e la fiala con l’olio santo. Egli s’inginocchiò dinnanzi all’immagine di Cristo, e le grandi candele ardevano luminose presso il reliquiario ingemmato, e il fumo dell’incenso si attorcigliava in arabeschi azzurrini sulla volta. Chinò il capo in preghiera, e i sacerdoti nelle loro cappe rigide sgusciarono via dall’altare.
E d’un tratto un tumulto selvaggio si scatenò dalla strada, e i nobili irruppero nella chiesa con le spade sguainate e le piume ondeggianti e gli scudi di lucido acciaio.
«Dov’è questo sognatore di sogni?», gridarono. «Dov’è questo Re che si è abbigliato di stracci, questo ragazzo che disonora il nostro Stato? Ora lo uccideremo, perché è indegno di govemarci!»
E il Giovane Re chinò di nuovo il capo, e pregò, e quando ebbe finito la sua preghiera si levò, e voltandosi li guardò intristito.
Ed ecco che dalle vetrate dipinte la luce del sole si riversò a fiotti su di lui, e i raggi lo rawolsero in una veste assai più splendida di quella che era stata foggiata per il suo piacere. Il bastone morto fiorì, e diede gigli più bianchi delle perle. Il rovo secco fiorì, e diede rose più rosse dei rubini. Più bianchi delle perle preziose erano i gigli, e i loro steli erano di fulgido argento. Più rosse dei rubini maschi erano le rose, e le loro foglie erano d’oro massiccio.
In veste regale egli restava sull’altare, e gli sportelli del reliquiario ingemmato si dischiusero, e dal cristallo dell’ostensorio sfavillante rifulse una meravigliosa, mistica luce. In veste regale egli restava sull’altare, e la Gloria di Dio riempiva il luogo, e i santi nelle loro nicchie scolpite parvero muoversi. Nello splendido abito di un re egli stava dinnanzi a loro, e l’organo proruppe in musica, e i trombettieri fecero squillare le loro trombe, e i fanciulli della cantoria sciolsero i loro canti.
E il popolo cadde in ginocchio adorante, e i nobili rinfoderarono le loro spade, e fecero atto di omaggio, e il volto del Vescovo impallidì, e le sue mani tremarono. «Uno più grande di me ti ha incoronato!», gridò, e s’inginocchiò dinnanzi a lui.
E il Giovane Re scese dall’altar maggiore, e si diresse verso la sua casa, passando in mezzo al popolo. Ma nessuno osò guardarlo in volto, perché il suo volto era quello di un angelo.





L'usignolo e la rosa

di O.Wilde

Perché il cielo è buio la notte?

Perché l'universo è in espansione.
L'espansione diluisce la densità della materia e abbassa la temperatura della radiazione, così che oggi è di solo 2,7 gradi sopra lo zero assoluto. Il freddo e il vuoto sono gli effetti del lungo tempo necessario a favorire la vita.
Non deve stupire allora che il cielo di notte sia buio: non potremmo esistere in un universo in cui di notte non ci fossero le tenebre... il cielo è buio di notte perché gli uccellini possano cantare.

"Ha detto che danzerà con me fino all'alba se le porterò delle rose rosse, ma in tutto il mio giardino non c’è una sola rosa rossa."

Dal nido nella Quercia, udì l’Usignolo. Guardò curioso attraverso le foglie e vide il giovane Studente e i suoi begli occhi pieni di lacrime.
"Domani al gran ballo e se le porterò una rosa rossa lei danzerà con me tutta la sera. La terrò fra le mie braccia, poserà il capo sulla mia spalla e la mia mano stringerà la sua... Ma non c’è una rosa rossa in tutto il mio giardino."

"Ecco un vero innamorato" disse l'Usignolo.
"Perché piange?" chiese il piccolo Ramarro verde.
"Già, perché?" chiese la Farfalla che volteggiava qua e là inseguendo un raggio di sole.
"Piange per una rosa rossa" disse l'Usignolo.
"Per una rosa rossa! Che ridicolaggine!" e il Ramarro, che era un po' cinico, rise di gusto.

L'Usignolo capiva il segreto dolore dello Studente e restava silenzioso sulla Quercia a meditare sul mistero dell'Amore.
D'improvviso spiegò nel volo le sue ali brune e si librò nell'aria e come un'ombra aleggiò sul Roseto che cresceva sotto la finestra dello Studente.
"Dammi una rosa rossa" implorò "e ti canterò la mia canzone più dolce."
Ma il Roseto scosse il capo.
"L'inverno ha ghiacciato le mie vene e il gelo ha straziato i miei boccioli"
"Una sola rosa rossa è tutto ciò che ti chiedo" gridò l'Usignolo. "Non c'è proprio nessun modo per averla?"
"Un modo c’è ma è così terribile che non oso dirtelo."
"Dimmelo, io non ho paura."
"Se vuoi una rosa rossa devi formarla con la musica al chiaro della Luna e tingerla col sangue del tuo cuore. Devi cantare per me col petto contro una spina tutta la notte, e la spina deve trapassare il tuo cuore".
"La morte è un prezzo alto da pagare per una rosa rossa" disse l'Usignolo "e la vita è cara a tutti. E' così dolce indugiare nel bosco, guardare il Sole nel cocchio d'oro e la Luna in quello d'argento. Sentire il profumo della vitalba, delle campanule azzurre che si nascondono nella valle e dell'erica che fiorisce sul colle. Ma l'Amore è più prezioso della Vita, e cos'è mai il cuore di un uccellino paragonato al cuore di un uomo?"

Il giovane Studente era disteso nell'erba e il pianto non s'era ancora asciugato dai suoi begli occhi.
"Sii felice!" gli gridò l'Usignolo. "Sii felice! Avrai la tua rosa rossa!".
Ma lo Studente che capiva solo le parole che sono scritte sui libri, "Questa creatura ha stile" disse a se stesso "avrà anche sentimenti? No, è come la maggior parte degli artisti: tutta forma, nessuna sincerità. Non si sacrificherebbe per gli altri. Pensa soltanto alla musica, e tutti sanno che l'arte è egoista. Ha note stupende nella sua voce, peccato che non significhino nulla".
La Quercia invece capì e si rattristò poiché voleva molto bene al piccolo Usignolo che si era costruito il nido fra i suoi rami. "Cantami un'ultima canzone" gli sussurrò. "Mi sentirò molto sola quando te ne sarai andato".

Quando la Luna brillò nel cielo, l’Usignolo volò al Roseto e pose il suo petto contro la spina. Tutta la notte cantò e la fredda Luna di cristallo si chinò ad ascoltarlo. Prima cantò dell'amore che nasce nel cuore e sul ramo più alto del Roseto fiorì una rosa. Pallida come la nebbia sospesa sul fiume, tenue come le incerte orme del mattino.

"Più forte! premi! piccolo Usignolo" gridava il Roseto "o il Giorno spunterà prima che la rosa sia compiuta".
Così l'Usignolo premette più forte sulla spina e più e più forte si fece il suo canto, poiché cantava il nascere della passione.
"Più forte! piccolo Usignolo o il Giorno spunterà prima che la rosa sia compiuta".

E premette più forte ancora finché la spina gli toccò il cuore, un acuto spasimo di dolore. Più e più amaro era il dolore e più selvaggio si faceva il canto poiché ora cantava dell'Amore che è reso perfetto dalla Morte e che non muore. E la meravigliosa rosa diventò vermiglia come rosa del cielo d'Oriente.

Ma la voce dell'Usignolo si affievolì, le sue piccole ali cominciarono a sbattere e un velo scese sui suoi occhi. Allora proruppe in un ultimo slancio. La bianca Luna lo udì e dimenticò l'alba. La rosa rossa lo udì e aprì i suoi petali al mattino.
"Guarda! Guarda!" gridò il Roseto "la rosa è perfetta!". Ma l'Usignolo non rispose poiché giaceva nell'erba con la spina nel cuore.

A mezzogiorno lo Studente aprì la sua finestra e guardò fuori.
"Che meraviglioso colpo di fortuna. Una rosa rossa! E' così bella che avrà un nome latino".
Si sporse, la colse, poi si mise il cappello e corse a casa della sua amata. "Ecco la rosa più rossa di tutto il mondo. La porterai stasera sul cuore"
Ma la fanciulla guardò lo Studente.
"Non è intonata al mio vestito. Ho ricevuto in dono dei gioielli veri, tutti sanno che i gioielli valgono più dei fiori. Non danzerò questa sera con uno Studente".

Il povero Studente gridò alla fanciulla e se ne andò arrabbiato gettando la rosa in mezzo alla strada. "Che cosa sciocca, che stupidaggine è l'Amore"




Il gigante egoista
di O. Wilde



Ogni pomeriggio, non appena uscivano dalla scuola, i bambini avevano l'abitudine di andare a giocare nel giardino del Gigante. Era un grande e bel giardino, con soffice erba verde e, qua e là sull'erba c'erano fiori belli come stelle, e c'erano dodici peschi che a primavera si aprivano in delicati fiori di rosa e perla, e in autunno davano frutti succosi.
Un giorno il Gigante tornò. Era stato in visita dal suo amico, l'orco di Cornovaglia, ed era rimasto da lui per sette anni. Quando arrivò vide i bambini che giocavano nel giardino.
"Che cosa fate qui?" gridò con voce molto burbera, e i bambini scapparono via.
"Il mio giardino è mio" disse il Gigante "chiunque può capirlo, e non permetterò a nessuno di giocarci, soltanto io posso". Così vi costruì un alto muro tutto attorno e non fece più entrare nessuno. Era un gigante davvero egoista.
I poveri bambini non avevano dove giocare.
Poi venne la Primavera, e in tutto il paese c'erano fiorellini e uccellini. Solo nel giardino del Gigante Egoista era ancora inverno. Agli uccelli non interessava cantare in quel giardino perché non c'erano bambini, e gli alberi si dimenticarono di fiorire. La Neve coprì l'erba con il suo grande manto bianco, e il Gelo dipinse tutti gli alberi d'argento. Poi invitarono il Vento del Nord a restare con loro, e lui venne. Poi venne la Grandine. Era vestita di grigio, e il suo respiro era come ghiaccio. "Non riesco a capire perché la Primavera tardi tanto" diceva il Gigante Egoista. Ma la Primavera non venne mai, e nemmeno l'Estate.

Una mattina il Gigante se ne stava sveglio nel letto quando udì una bella musica. Era un piccolo fanello che cantava fuori dalla sua finestra, ma era così tanto tempo che non sentiva cantare un uccello nel suo giardino, che questa gli sembrò la più bella musica del mondo. Allora la Grandine interruppe la danza sulla sua testa, e il Vento del Nord smise di ruggire, e un profumo delizioso lo raggiunse dalla finestra aperta. Che cosa vide? Attraverso un piccolo buco nel muro si erano intrufolati i bambini, e ora stavano seduti sui rami degli alberi. Su ogni ramo che poteva vedere c'era un bambino. E gli alberi erano talmente contenti di aver riavuto i bambini, che si erano coperti di fiori, e facevano ondeggiare delicatamente le loro braccia sul capo dei bambini. Gli uccelli volavano qua e là cinguettando di piacere, e i fiori guardavano all'insù attraverso l'erba verde e ridevano. Era una scena bellissima, solo in un angolo era ancora inverno. Era l'angolo più lontano del giardino, e lì se ne stava, in piedi, un ragazzino. Era così piccolo che non riusciva a raggiungere i rami dell'albero, e vi girava tutto intorno, piangendo amaramente. Il povero albero era coperto di ghiaccio e di neve, e il Vento del Nord soffiava e ruggiva su di lui. "Sali, bambino!" diceva l'Albero, e piegava i rami più in basso che poteva; ma il bambino era minuscolo.
E il cuore del Gigante si intenerì non appena guardò fuori. "Ora so perché la Primavera non voleva venire qui. - disse - Metterò quel bambinetto in cima all'albero, e poi abbatterò il muro, e il mio giardino diventerà un parco giochi per i bambini, per sempre". Era davvero molto dispiaciuto per quello che aveva fatto.
Così scese piano di sotto e aprì la porta senza far rumore, e uscì in giardino. Ma quando i bambini lo videro si spaventarono tanto che corsero via, e nel giardino tornò l'inverno. Solo il bambino più piccolo non fuggì, e il Gigante lo prese delicatamente in braccio, e lo posò sull'albero. E l'albero cominciò improvvisamente a fiorire, e gli uccelli vi si posarono e cantavano, e il bambino tese le braccia e le gettò al collo del Gigante, e lo baciò. E quando gli altri bambini videro che il Gigante non era più cattivo, tornarono indietro di corsa, e con loro tornò la Primavera. "Ora è il vostro giardino, bambini" disse il Gigante, e prese una grande ascia e abbatté il muro.
Tutto il giorno giocarono, e la sera andarono dal Gigante per salutarlo. "Ma dov'è il vostro piccolo compagno?" disse questi: "il bambino che ho messo sull'albero". Il Gigante gli voleva bene più che a tutti gli altri perché lo aveva baciato. "Non lo sappiamo" risposero i bambini "è andato via". "Dovete dirgli di venire qui domani" disse il Gigante. Ma i bambini dissero che non sapevano dove viveva e che non lo ave-vano mai visto prima. Il Gigante si sentì molto triste: "Come mi piacerebbe rivederlo!" ripeteva.

Passarono gli anni, e il Gigante divenne molto vecchio e debole. Non poteva più giocare, perciò si sedeva in una grande poltrona e guardava i bambini intenti a giocare, e ammirava il suo giardino. "Ho tanti bei fiori" diceva"ma i bambini sono i fiori più belli di tutti". Una mattina d'inverno guardò fuori dalla finestra mentre si vestiva. Ora non odiava l'Inverno, perché sapeva che era soltanto la Primavera addormentata, e che i fiori stavano riposando. D'improvviso si strofinò gli occhi dalla meraviglia e guardò e guardò. Era certo una vista meravigliosa. Nell'angolo più lontano del giardino c'era un albero coperto di bellissimi fiori bianchi. I suoi rami erano tutti d'oro, e pendevano frutti d'argento, e sotto c'era il ragazzino cui aveva voluto tanto bene. Il Gigante corse giù pieno di gioia, e uscì in giardino Si affrettò attraverso il prato, e si avvicinò al bambino. E quando giunse vicino al suo viso diventò rosso dall'ira e disse, "Chi ha osato ferirti?" Perché sulle palme delle mani del bambino c'erano i segni di due chiodi, e i segni di due chiodi erano sui suoi piedini. "Chi ha osato ferirti?" gridò il Gigante, "dimmelo, ch'io possa prendere la mia grande spada e ucciderlo" "No" rispose il bambino: "queste sono le ferite dell'Amore". "Chi sei tu?" disse il Gigante, e uno strano timore lo prese, e si inginocchiò davanti al bambino. E il bambino sorrise al Gigante, e gli disse, "Tu mi hai lasciato giocare una volta nel tuo giardino, oggi verrai con me nel mio giardino, che è il Paradiso". E quando i bambini corsero a giocare quel pomeriggio, trovarono il Gigante che giaceva morto sotto l'albero, tutto coperto di fiori bianchi.





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