domenica 13 gennaio 2008

Il secondo Dono di Prometeo di D.Notari


Mi sono chiesto spesso se ci fosse un mito che narrasse l’origine della ceramica, visto che la fantasia degli antichi è riuscita quasi sempre a spiegare in maniera poetica (spesso anche drammatica) fenomeni naturali ed espressioni dell’arte con un mito. Ma nonostante abbia cercato con impegno tra volumi e teogonie, credo proprio che un mito sulla ceramica manchi all’appello.
Così ho provato a plasmarne uno: ho pensato che la ceramica potesse (e dovesse) essere accostata alla bellezza classica per antonomasia, la bellezza di Afrodite. Un mito greco, dunque, perché di mitologia greca la nostra civiltà occidentale è impregnata in ogni sua cellula, biologica e metaforica, e Freud e Graves l’hanno saputo così bene dimostrare.
Ho immaginato che gli smalti e i colori della ceramica (polveri sciolte nell’acqua) fossero in origine il belletto di Afrodite. Quale miglior smalto, quale miglior colore!
Occorreva a questo punto solo quella scintilla che innescasse il conflitto drammaturgico e alimentasse la sua temperatura poetica. Occorreva quel corto circuito provocato dall’incontro di due opposti di cui il primo era la bellezza assoluta. E quale miglior antitesi alla bellezza di Afrodite se non la deformità di Efesto?
Ecco! secondo me le cose andarono così:

Nata dalla spuma del mare, fecondata dai genitali di Urano che Crono aveva tagliato e scagliato dietro di sé nell’Egeo, Afrodite errò a cavallo di una conchiglia da Citera a Cipro, prima che la dea Themis, infastidita dalla sua completa nudità, si affrettasse a mandare le sue figlie, le Stagioni, per vestirla e truccarla. Poi, su un carro d’alabastro tirato da cigni e contornato da un volo di passeri e colombe, la condussero sull’Olimpo.

Quando Afrodite si presentò al cospetto degli dei, Efesto era intento alla fornace. Ora fondeva metalli preziosi per i suoi capolavori magici (gli automi vivi e semoventi, come i cani d’oro di guardia alla porta di Alcinoo o lo stuolo di fanciulle che lo aiutavano nella fucina), ora più semplicemente cuoceva modesti utensili di terracotta per l’uso quotidiano degli dei: orci, vasi, ciotole portaaromi.
Il fabbro appena vide la dea rimase folgorato (altro che folgori paterne! la grazia e l’armonia di Afrodite superavano ogni altra divina bellezza, compresa la sua arte!), allora tirò per la manica il padre Zeus e balbettando più del solito gli sussurrò qualcosa all’orecchio.
Zeus si rivolse alla fanciulla e indicandole il figlio le disse:
– O Afrodite, mio figlio Efesto ti ha appena chiesta in moglie, da oggi sarai la sua sposa fedele.
La fanciulla squadrò quell’essere sgraziato e deforme che le veniva incontro saltellando come una scimmia, per di più zoppa, e scoppiò in lacrime. Era questo il dono di benvenuto degli dei? Grossi lucciconi le rigarono il viso sciogliendole il prezioso belletto che le avevano donato le Stagioni. Quale peccato aveva commesso lei, ancora innocente? Impietrita, pianse finché ebbe lacrime, poi scappò nei suoi alloggiamenti.

Piantato in asso, il fabbro ebbe un singulto e abbassò gli occhi mortificato. Fu allora che la vide sul pavimento. Era una modesta ciotola portaaromi che aveva cotto lui stesso nella fornace. La raccolse e la osservò incuriosito. Macchie di colori ormai senza vita striavano la superficie della terracotta: tracce di rossetto, di minio, di biacca, di ombretto, scivolate insieme alle lacrime dal viso della fanciulla. Efesto ebbe un secondo singulto: quelle macchie non gli ricordavano solo la bellezza di Afrodite, ma – cosa più insopportabile – anche il disprezzo di lei per la sua bruttezza.
Gli tornarono in mente le mortificazioni subite sin da bambino, le canzonature degli dei e le cadute dall’Olimpo: la prima appena nato, quando fu scagliato dalla madre Era, delusa per la sua bruttezza, e la seconda per mano di Zeus, quando aveva cercato di far da paciere tra i genitori in lite. La caduta questa volta lo aveva reso irrimediabilmente zoppo.
Basta! La misura era colma anche per la pazienza dell’ultimo degli dei, il mostro abituato ad abbozzare. Preso dall’ira, Efesto scagliò la ciotola portaaromi tra le fiamme.

Grande fu la sua sorpresa quando, il giorno dopo, raffreddata la fornace – aveva già raccolto i suoi capolavori magici – Efesto scorse sul fondo, miracolosamente intatta, la ciotola. La raccolse con delicatezza e la osservò. Le macchie di biacca per incanto si erano fuse e trasformate in prezioso smalto dai morbidi riflessi di madreperla, quelle di ombretto in smeraldi e blu marini; le macchie giallastre del minio in squillanti arancioni, quelle del rossetto in limpidi granati. Per Zeus! mai vista una cosa simile, la ciotola era bella come il viso imbellettato di Afrodite.
Allo zoppo balenò una speranza.

Bussò timidamente alla sua porta. Afrodite rispose a malapena. Efesto spinse l’uscio, e zoppicando si avvicinò al suo letto. Balbettò qualcosa di incomprensibile e le porse il dono. Afrodite guardò la ciotola poi il suo artefice, e lentamente si compì il miracolo: il disprezzo si trasformò in ammirazione e l’ammirazione in amore. L’arte aveva trasfigurato il suo artefice, rendendolo bello come se stessa.
– Questa ciotola è bella come te, – sussurrò Afrodite baciandolo sulla bocca.
– Nessuno mi aveva mai baciato prima, neppure mia madre, – balbettò Efesto.
Il viso di Afrodite si rigò ancora di lacrime, ma questa volta di commozione.

Molti anni dopo, quando Prometeo rubò il fuoco agli dei, portò con sé anche il segreto di quest’arte nata per caso sull’Olimpo, frutto dell’incontro tra divini opposti e la donò agli uomini. E gli uomini, grati, la chiamarono ceramica .
Domenico Notari



È a dir poco singolare che proprio i Greci non sfruttarono adeguatamente le potenzialità della ceramica, limitandosi all’uso di argille colorate e di pochi colori (bianco, rosso, rosa, nero), mentre i Babilonesi e gli Egizi già conoscevano la tecnica della vetrinatura e adoperavano i colori a partire dal 2000 a. C.

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