martedì 22 gennaio 2008

Le Favole di L. Capuana

Piuma d'oro di L. Capuana

C'era una volta un Re e una Regina che avevano una figlia bella quanto la luna e quanto il sole; tanto frugola però, che facendo il chiasso metteva sossopra tutto il palazzo reale; capricciosa e bizzosa poi quanto può essere una bambina che i genitori non sgridavano mai. Più grosse le faceva e più questi ne ridevano:
- Ah, ah, che frugolina! Ah, ah, che frugolina!
Ma un giorno piansero, e come! della loro eccessiva benevolenza. Il Re stava per andare a caccia; al portone del palazzo trovò una vecchiarella cenciosa, ricurva, che si appoggiava a un bastone per reggersi.
- Che volete, buona donna?
- Cerco del Re.
- Il Re sono io.
La vecchia gli fece una bella riverenza e gli porse una lettera:
- È del Re di Spagna.
Il Re di Spagna pregava d'alloggiarla per una notte nel palazzo reale, come se fosse stata la sua stessa persona:
- Non le domandate né donde venga né dove vada; non vi pentirete d'averle usata cortesia.
Il Re credette che fosse uno scherzo, e diè ordine che le preparassero una stanzina in soffitta e la mettessero a tavola coi servitori.
- Grazie, Maestà - disse la vecchia.
E andò a rannicchiarsi in soffitta.
A tavola, coi servitori, mangiava zitta zitta in un canto, quand'ecco quella frugolina della Reginotta che le versa la saliera e la pepaiuola nella minestra:
- Sentirete che sapore!
E tutti i servitori a ridere:
- Ah, ah, che frugolina! Ah, ah, che frugolina!
La vecchia non fiatò, e mangiò la minestra come se niente fosse stato.
Il Re e la Regina, saputa la cosa, si messero a ridere anche loro:
- Ah, ah, che frugolina! Ah, ah, che frugolina!
La vecchia, levatasi da tavola, cercava il bastone e non lo trovava. Guarda nel camino e vede che il bastone era già mezzo arso dal fuoco; e la Reginotta, contorcendosi dalle risa, le diceva:
- È ben caldo: vi servirà meglio.
E tutti i servitori a ridere:
- Ah, ah, che frugolina! Ah, ah, che frugolina!
La vecchia trasse il bastone dal fuoco, e uscì di cucina appoggiandosi, come se niente fosse stato.
Il Re e la Regina, saputa la cosa, si messero a ridere anche loro.
La mattina dopo, nel punto d'andar via, la vecchia trovò sul pianerottolo la Reginotta che l'aspettava:

- Vecchina, donde venite e dove andate?
Vecchina, che ricordo mi lasciate?

E colei rispose, brontolando:

- Dove vado e donde vengo,
C'è la pioggia e soffia il vento.
Tu col vento ci verrai,
Con la pioggia te n'andrai.

La toccò col bastone, scese le scale e sparì.
Da quel giorno, la Reginotta cominciò a scemare di peso. Non dimagrava, non diventava brutta, aveva la giusta crescenza, ma da un mese all'altro si sentiva sempre più leggiera. Arrivata a diciotto anni, all'apparenza era una ragazza bella, bianca di carnagione, con un mucchio di capelli d'oro, ma pesava meno d'una piuma, e il più lieve soffio la portava via.
Figuratevi la disperazione del Re e della Regina.
Bisognava tener chiuse tutte le finestre del palazzo reale; non potevano condurla fuori per paura che il vento non la trasportasse chi sa dove. E siccome la poverina a star rinchiusa s'annoiava, e il Re e la Regina non volevano che la gente sapesse la disgrazia della loro figliuola, così per svagarla passavano le giornate a soffiarle attorno e a farla volare pei corridoi e per gli stanzoni del palazzo.
Ella si divertiva immensamente a sentirsi sballottare per aria, e gridava:
- Soffiate, Maestà! Ancora, Maestà!
Il Re e la Regina ci rimettevano i polmoni per farla andare in alto. Ma più alto ella saliva, e più forte gridava:
- Soffiate, Maestà! Ancora, Maestà!
Re e Regina non potevano mica stare tutto il santo giorno a fare da soffietto; e la Reginotta s'imbronciava e piangeva. Vedendola piangere, i poveri genitori tornavano subito a soffiare, il Re da una parte e la Regina dall'altra; e lei, riprendendo subito il buon umore, batteva le mani:
- Soffiate, Maestà! Ancora, Maestà!
La facevano montare fino al soffitto; le correvano dietro per i corridoi, soffiando, soffiando, soffiando per farla stare allegra, perché quella povera figliuola non poteva avere altro svago; e quando si riposavano, ansimanti dall'aver soffiato troppo, Re e Regina si lamentavano:
- Figlia disgraziata, chi ti ha fatto questa malìa?
Una volta, a tali parole, la Reginotta si rammentò della risposta della vecchia, e disse:
- È stata quella vecchia!
- Come mai?
- Mi rispose:

Dove vado e donde vengo,
C'è la pioggia e soffia il vento.
Tu col vento ci verrai,
Con la pioggia te n'andrai.

Se avesse potuto rintracciare la vecchia, il Re le avrebbe dato un tesoro per disfare la malìa. Ma chi sa dove lucevano gli occhi di quella Strega?
E Re e Regina continuarono a soffiare e a spingere in alto Piuma-d'-oro, come chiamavano la figliuola perché era bionda e i suoi capelli parevano d'oro filato. Piuma-d'-oro oramai pensava soltanto a divertirsi a quel modo. Mangiava di buon appetito, cresceva di corporatura, diventava anche più bella; il suo peso però era talmente scemato, che una piuma vera sarebbe parsa di piombo al paragone. Bastava quasi un alito per farla salire in alto; pure non si contentava mai, se il Re e la Regina non soffiavano forte:
- Soffiate, Maestà! Ancora, Maestà!
Re e Regina non reggevano più. Dopo due anni di questo lavoro, s'accorsero che, a furia di soffiare, cominciava ad allungarglisi il muso; e Piuma-d'-oro intanto diventava più esigente, voleva spassarsela sempre per alta. Non aveva altro svago, in verità; ma i genitori potevano stare eternamente a soffiare? E quand'essi sarebbero morti, chi avrebbe avuto la pazienza di continuare? Non si davano pace.
Intanto s'era sparsa pel mondo la fama della bellezza della Reginotta; il Re di Portogallo mandò a richiederla pel Reuccio che doveva prendere moglie.
Grande imbarazzo. Se rispondevano no, il Re di Portogallo poteva offendersi e dichiarare una guerra.
Re e Regina stettero un giorno e una notte a consultarsi, e all'ultimo decisero di prendere un anno di tempo per fare le nozze.
Il guaio peggiore fu allorché il Reuccio scrisse che sarebbe andato a fare una visita alla promessa sposa per conoscerla di presenza. Bisognava palesare l'infermità della Reginotta, e questo ai genitori coceva.
Vedendoli così afflitti che non avevano più animo e forza di soffiare e farla volare per aria, la Reginotta disse:
- Maestà, giacché la vecchia brontolò: «Tu col vento ci verrai», lasciatemi andare; la mia sorte vuole così.
Pianti, grida disperate:
- Non sarà mai, figliuola mia! Non sarà mai!
Ma la Reginotta s'ostinò:
- Lasciatemi andare. Il cuore mi predice che me ne verrà buona fortuna.
Il Re e la Regina alla fine si rassegnarono; e un giorno che tirava un furioso maestrale, condussero in lettiga la figliuola sopra un monte; l'abbracciarono, la benedissero e l'abbandonarono in balìa dei vento.
In un batter d'occhio fu sollevata in alto e spinta così lontano che, dopo pochi minuti, la perdettero di vista.
Lasciamo costoro a piangere, e seguitiamo la Reginotta.
Quantunque afflitta anche lei, dopo alcune ore di viaggio, vedendosi trasportata a tanta altezza e così rapidamente come non aveva mai provato, si rasserenò e si mise a guardare in giù, torno torno. Che spettacolo! Città, montagne, pianure, fiumi, boschi, tutto le passava via sotto di sé, quasi lei stesse ferma e le cose fuggissero precipitosamente per l'opposta direzione.
Se il vento talvolta soffiava meno forte, ella scendeva, girando, poi tornava a essere sollevata e sbalzata fino alle nuvole, andando sempre avanti, sempre avanti, sorpassando nuove città, nuove montagne, nuove pianure, boschi più fitti, fiumi più larghi. Tutt'a un tratto s'accorse che la terra era sparita. Acqua, acqua, acqua, non si vedeva altro, acqua che si agitava in cavalloni spumeggianti, e poi acquai acqua ancora... Era il mare.
Quando il vento la faceva scendere giù, Piuma-d'-oro aveva paura. Una volta gli spruzzi dei cavalloni le arrivarono proprio alla faccia, e si credette perduta. Ma ecco una folata che la fa risalire, e la spinge a riprendere la corsa precipitosa... E ancora acqua, acqua, acqua!...
Poi le parve che il sole si spegnesse nel mare, e che un velo vi si stendesse sopra, mentre in alto, nel cielo buio, apparivano le stelle. Il cuore le diventò piccino piccino, e si mise a piangere, e a gridare:
- Ah, mamma mia! Ah, mamma mia!
Il vento però la cullava così dolcemente, che a poco a poco le si aggravarono gli occhi; senza accorgersene, si addormentò quasi si fosse trovata nel proprio letto.
Quante miglia aveva fatte durante il sonno? Chi poteva saperlo?
All'alba, riaprendo gli occhi, si senti slargare il petto, rivedendo di nuovo pianure verdeggianti. Piuma-d'-oro volava così basso, che distingueva benissimo le case di campagna, gli alberi, le vie, i rigagnoli, fra la gente; le persone sembravano tante formiche. E scendendo ancora più giù, s'accorse che i contadini la guardavano, levando le mani in alto per accennarla agli altri; e sentiva le loro voci:
- Che sarà mai? È un uccellaccio?
Il sole era già alto. Il vento, diminuito, pareva che proprio si divertisse a cullarla per aria.
I capelli si erano sciolti e le svolazzavano attorno al collo, le vesti si gonfiavano e sbattevano, quasi ali che la reggessero su.
Stava per arrivare, finalmente, dove la sua sorte, buona o trista, voleva portarla?...
Intanto lo stomaco cominciò a farsi sentire. Da un giorno e una notte ella non ci aveva messo più niente, neppure una stilla d'acqua. Come trovar da mangiare lassù per aria?
Passava uno stormo di uccelli,
- Uccellini, uccellini, datemi qualcosa di quel che portate in becco; muoio di fame.
- I figlioletti ci attendono nei nidi; questo cibo è per loro.
Gli uccelli continuarono il loro cammino. Il vento la spinse più alto. Passava una fila di nuvole.
- Nuvole, nuvole belle, datemi una stilla d'acqua; muoio di sete.
- Quest'acqua è pei seminati; abbiamo fretta.
E le nuvole continuarono il loro cammino..
Verso il tramonto, ecco laggiù, lontano, una montagna rocciosa, con in cima un palazzo che pareva di marmo bianco e nero, grande quanto una città, meraviglioso. Piuma-d'-oro si fece animo e pensò:
- Mi fermassi almeno colà! Ah, mamma mia, mi sento morire!
Infatti, dalla debolezza, le venne una mancanza; non vide né sentì più niente; e quando rinvenne, si trovò stesa su la terrazza del palazzo veduto da lontano.
Scese per la scaletta che conduceva all'interno, sperando d'incontrare qualcuno; non si scorgeva anima viva.
Le pareti delle stanze erano di marmo bianco, le cornici, gli stipiti degli usci e le colonne, di marmo grigiastro. Tavolini, seggiole, letti, mobili, di marmo bianco o grigiastro. E dappertutto uno strano odore di sale e di pepe.
Aperse un armadio; piatti con pietanze svariate, e panini e frutta e dolci; ogni cosa però scolpita in marmo bianco o grigiastro, e con un odore così forte, che la faceva starnutire.
Spinta dalla fame, accostò alla bocca una di quelle finte vivande. Stupì; erano proprio di sale e di pepe. Allora si convinse che l'intero palazzo era fabbricato con massi di sale ben levigati e con pepe tanto sodamente impastato, da eguagliare il marmo.
Si rammentò della saliera e della pepaiola da lei versata, quand'era bambina, nella minestra della vecchia, e disse:
- Questo è il suo palazzo. Mi castiga così.
E si mise a gridare, piangendo::
- Vecchina, o vecchina! Dammi da mangiare, vecchina!
Una voce fioca fioca rispose da lontano:
- C'è tanta roba costì; sentirai che sapore!
Costretta dalla necessità, Piuma-d'-oro prese un panino e una mela e cominciò a sbocconcellarli. Sapevano proprio di pane e di mela, ma salati e pepati!
E Piuma-d'-oro a gridare, piangendo:
- Vecchina, o vecchina! Dammi da bere, vecchina!
La voce fioca fioca rispose da lontano:
- C'è tanta roba costì; sentirai che sapore!
Prese una bottiglia e un bicchiere; l'acqua versata era torbida. Pure, costretta dalla necessità, Piuma-d'-oro bevve tutto d'un fiato. Oh Dio! Anche l'acqua era salata e pepata.
E così tutti i giorni, senza veder mai viso di cristiano per quell'immenso palazzo. Fino gli alberi del giardino e i fiori e l'erbe erano di sale e pepe. E Piuma-d'-oro starnutiva starnutiva, versando goccioloni di lagrime.
Veniamo, ora al Reuccio di Portogallo, arrivato per visitare la Reginotta.
Il Re e la Regina gli dissero, piangendo dirottamente:
- La Reginotta se la portò via il vento!
Da prima si credette canzonato; poi, udita la storia di Piuma-d'-oro, disse:
- Vado a cercarla.
- Dove mai?
-In capo al mondo. Voglio trovarla a ogni costo.
Montò a cavallo e via, solo solo, domandando dappertutto:
- In grazia, avete visto passare per aria una bella ragazza trasportata dal vento?
Molti lo presero per matto, e non gli risposero neppure.
- Ingrazia, avete visto passare per aria una bella ragazza trasportata dal vento?
- L'abbiamo vista. Volava, volava; pareva un uccellaccio.
- E per dove?
- Dritto, avanti, avanti.
Il Reuccio spronò il cavallo. Incontrò altra gente:
- Di grazia, avete visto passare per aria una bella ragazza trasportata dal vento?
- L'abbiamo vista. Volava, volava; pareva un uccellaccio. Poi il vento la spinse in alto, e sparì fra le nuvole.
A questa notizia il Reuccio si perdé di coraggio; e stava per tornarsene addietro, quando fra le macchie scorse un vecchio con la barba bianca, lunga fino ai ginocchi, e con una zappa in mano.
- Bel cavaliere, Che cercate da queste parti?
- Cerco la reginotta Piuma-d'-oro che fu portata via dal vento. In grazia, l'avete vista passare?
- Chiedeva da mangiare agli uccelli e da bere alle nuvole: ma nuvole e uccelli non le diedero niente, e continuarono il loro cammino. Chi va, arriva; chi cerca trova. Coraggio, bel cavaliere!
- E voi chi siete?
- Un povero vecchio. Dovrei scavare una radica qui, ma non ho forza.
- Datemi la zappa; scaverò io per voi.
Il Reuccio smontò da cavallo e si mise a scavare.
Scava, scava, scava, la radica non veniva fuori.
- Coraggio, bel cavaliere! Chi cerca trova.
Il vecchio aveva un bel dire; la radica non veniva fuori.
Il Reuccio grondava di sudore, si sentiva rotte le braccia.
- Coraggio, bel cavaliere! Chi cerca trova... Grazie! Eccola qui!
E il vecchio stese la mano alla radica terrosa
- Vi do questo fischietto - poi disse. - Se avete bisogno di qualche cosa, sonate e vedrete. Badate però di non perderlo; non ne trovereste un altro simile per tutti i tesori del mondo.
Il Reuccio ringraziò, si mise in tasca il fischietto, rimontò a cavallo e proseguì il viaggio. Pensava alla Reginotta:
- Se avessi chi potesse scovarla!
E tratto di tasca il fischietto, mezzo incredulo, gridò:
- Aquila, aquila messaggiera, ai miei comandi!
Fischia, ed ecco l'aquila che scende dall'alto con le grandi ali tese.
- Aquila messaggiera, va' attorno e recami notizie della mia Reginotta; t'attendo qui.
L'aquila ripartì subito, e per due giorni non si fece vedere.
Al terzo giorno, ricomparve con una lettera al becco.
La Reginotta scriveva:
«Sono prigioniera nel palazzo di sale, e pepe d'una Fata, dove non può entrare anima viva».
Il Reuccio rammentò allora le parole della vecchia che gli erano state riferite:

Tu col vento ci verrai,
Con la pioggia te n'andrai.

- Va bene - pensò.
E cavato di tasca il fischietto:
- Nuvole, nuvole, ai miei comandi!
Fischia, ed ecco da ogni parte del cielo montagne di nuvole, che accorrono premurose, gravide di pioggia.
- Aquila, aquila messaggiera, ai miei comandi.
Al fischio, anche l'aquila ricomparve e scese a posarglisi ai piedi.
- Su su, aquila mia! Portami al palazzo di sale e pepe della Fata; e voi, nuvole, dietro a me!
Inforcò l'aquila, quasi fosse stata un cavallo; e l'aquila, aperte le ali, lo trasportò in alto, via pel cielo; essa col Reuccio avanti, e le nuvole dense, gravide di pioggia, montagne smisurate che oscuravano il sole, dietro a loro, via, via!
La Fata visto dalla terrazza del suo palazzo quel temporale che si avvicinava, s'accorse del pericolo; e scatenò il libeccio che teneva chiuso in una stanza.
Il vento incontrò l'aquila e le nuvole a mezza strada, e col suo gran soffio non li faceva avanzare. La lotta durava da più ore, senza che l'aquila e le nuvole avessero potuto guadagnare un palmo di spazio. Il libeccio, invece di stancarsi a soffiare, prendeva anzi maggior forza.
- Aspetta un po' - disse il Reuccio.
Cavò di tasca il fischietto:
- Tramontana, tramontana, ai miei ordini!
Fischiò; e subito si levò una tramontana furiosa, che soffiando di dietro, spinse in avanti aquila e nuvole con violenza. In pochi istanti, tutti furono sul palazzo di sale e pepe della Fata, e si fermarono.
- Vento, chétati. Nuvole scioglietevi in pioggia!
Il Reuccio tornò a fischiare. Parve si aprissero a un tratto le
cateratte del cielo; e intanto che la pioggia veniva giù a torrenti, il palazzo di sale e pepe si andava squagliando; e giù per le gole della montagna precipitavano torbidi fiumi di sale e pepe liquefatti, che correvano verso il mare.
Piovve così sette giorni e sette notti, finché del palazzo della Fata non rimase vestigio. La Fata era sparita lasciando la Reginotta aggrappata a un masso, dopo averle ripetuto all'orecchio:

- Tu col vento ci verrai,
con la pioggia te n'andrai.

Il Reuccio, montato sull'aquila, voleva prendere con sé Piuma-d'-oro. Ma che! A furia di mangiare sale e pepe, ella aveva riacquistato il suo peso, e l'aquila non poteva reggerli addosso tutti e due.
- Grazie, aquila forte.
Scese a terra, e lasciò l'aquila in libertà.
La Reginotta, dall'allegrezza, non riusciva a dire neppure una parola. Il Reuccio intanto, cavato di tasca il fischietto:
- Cavalli, cavalli bardati, ai miei comandi!
Fischia, e due magnifici cavalli bardati sbucano di sottoterra davanti a loro, scalpitanti. Egli stava per rimettersi il fischietto in tasca; ma rieccoti il vecchio dalla barba bianca, lunga fino alle ginocchia, che gli aveva fatto quel regalo:
- Reuccio, il fischietto non vi serve più; rendetemelo, e Dio vi accompagni fino a casa.
Il Reuccio veramente voleva trattenerselo; era così comodo!
- Provate - soggiunse il vecchio; - in mano vostra non fischia più.
Infatti non fischiava più. E il Reuccio glielo rese:
- Grazie di nuovo, buon vecchio.
Dopo un mese di viaggio, Reuccio e Reginotta arrivarono sani e salvi ai palazzo reale.
Si sposarono con grandi feste e vissero felici e contenti. La Reginotta però, a ricordo della sua cattiveria di bambina, fece voto di non mangiare mai più né pepe né sale in vita sua.
E così finisce la storia di Piuma-d'-oro.





CINGALLEGRA di L. Capuana

C'era una volta un ramaio vedovo, che aveva due figliole: una, la maggiore, bella, bionda, alta e snella, con aria così superba, da sembrare che volesse tener discoste le persone; l'altra, bruttina ma piacente, e così modesta così buona, che bastava vederla e sentirla parlare per volerle subito bene.
Il padre era orgoglioso della figliola maggiore, e non nascondeva la sua predilezione. Stava tutta la giornata su l'uscio della bottega, battendo col martello caldaie, pentole, paioli, padelle sopra la incudinetta a palo fissata nel suolo; e continuando a lavorare, dava la voce ai passanti di sua conoscenza, e li faceva ridere con le sue barzellette. Qualcuno, curioso, gli domandava:
- Ramaio, quando mariterete le figliole?
- Presto. La maggiore la darò a un Reuccio; l'altra a chi vuol pigliarsela.
E quella, approfittando della debolezza paterna, se la passava senza far niente per non sciuparsi le mani, ben pettinata, bene agghindata, affacciata alla finestra quasi stesse davvero in attesa del Reuccio, mentre la sorella doveva affaticarsi a tener pulite le stanzette del mezzanino, a preparare il desinare e la cena, a fare il bucato nell'orticello a pianterreno, a sciorinarvi i panni lavati, con l'unico svago di coltivare, nelle ore libere, una aiuola di fiori in un cantuccio.
E spazzando, spolverando, accendendo il fuoco nei fornelli, risciacquando il bucato e innaffiando i fiori, cantava, cantava, cantava. Aveva una vocina sottile, intonata, che faceva fermar la gente ad ascoltarla dalla via con grande rabbia della sorella maggiore. Le vicine per ciò l'avevano soprannominata la Cingallegra del ramaio.
Alla superbiosa che se ne stava tutto il santo giorno alla finestra, ben pettinata, bene agghindata, con le mani in mano per non sciuparsele, nessuno badava; gli operai, perché sapevano che non si sarebbe mai degnata di sposare uno di loro; i signori perché non volevano abbassarsi a prendere per moglie la figlia d'un ramaio, e neppure farla insuperbire di più, mostrando di ammirarne la bellezza.
Gli anni passavano, e inutilmente il ramaio ripeteva:
- La maggiore la darò ai Reuccio, l'altra a chi vuol pigliarsela.
Qualcuno, per ripicco, gli rispondeva:
- Ho paura, ramaio, che vi spighiscano in casa.
E lui, picchiando più forte sull'oggetto che aveva per le mani, pentola, paiolo, padella o caldaia, rispondeva:
- La maggiore la darò a un Reuccio, l'altra a chi vuol pigliarsela.
- La vanità gli ha fatto andar il cervello a spasso - pensava la gente.
Nell'orticello a pianterreno c'era un albero di pesco. Da qualche tempo in qua, appena Cingallegra - anche il padre e la sorella la chiamavano così, ma con tono di sprezzo - appena Cingallegra si metteva a cantare, ecco un frullìo di ali che le faceva alzare gli occhi. Un pettirosso le volava sulla testa, quasi a portata di mano; si allontanava, ritornava, si posava in cima al pesco, riprendeva a volare cinguettando, trillando. Pareva volesse imitare il canto della figlia del ramaio, e che si stizzisse di non riuscirvi. E siccome essa, distratta dall'arrivo dell'uccellino, cessava di cantare, questi, dondolandosi su una rama, se ne stava zitto aspettando.
- Vuoi sentirmi cantare, bell'uccellino?
Il pettirosso con un trillo faceva intendere: si! si!
E Cingallegra cantava. L'uccellino ascoltava, continuando a dondolarsi allegramente; e, appena essa taceva, riprendeva a provarsi di modulare il canto, tentando di imitarla, ma finiva sempre con un trillo di stizza, e volava via.
Ora che Cingallegra aveva questo svago, a ogni momento di libertà, scendeva sùbito nell'orticello e si metteva a cantare. Il pettirosso però veniva a ore fisse, due volte al giorno, la mattina prima della levata del sole, la sera verso il tramonto. Quando egli non era là, Cingallegra si sentiva sola più dell'ordinario, e faceva di malavoglia le faccende di casa.
La sorella, che se ne stava a grogiolarsi nel letto, non poteva soffrire il canto mattiniero di Cingallegra.
- La vuoi smettere di cantare all'alba? Mi impedisci di dormire.
- La vuoi smettere di dormire fino a tardi? Mi impedisci di cantare.
Ah! Diventava impertinente? E la maggiore se ne lagnò col padre.
- Ed anche si burla di me chiamandomi Reginotta!
Il padre, che non ci vedeva dagli occhi per lei, rimproverò Cingallegra.
- Le faccio la serva: non basta? Io spazzare, io spolverare, io fare il bucato, io sciorinare i panni, io preparare da mangiare!... E non è vero che voi dite: La maggiore la darò al Reuccio, l'altra a chi vuol pigliarsela? Dunque Reginotta le sta bene. Lasciatemi un po' sfogare col canto!
E la mattina, prima del levare del sole, scendeva nell'orticello, si sedeva sotto il pesco e cominciava a cantare. Da li a poco, ecco un frullio d'ali: era il pettirosso che arrivava cinguettando, trillando, gorgheggiando. Si allontanava, ritornava, si posava in cima al pesco dondolandosi su una rama, e pareva che stesse ad ascoltare. E Cingallegra cantava, cantava cantava, piano, quasi volesse fargli la lezione e dargli agio di apprenderla bene. E appena ella taceva, il pettirosso riprendeva a provarsi di imitarla; ma finiva sempre con un trillo di stizza, e volava via.
Intanto, di giorno in giorno, scendeva a dondolarsi su una rama più bassa. Le volte, però, che Cingallegra si rizzava in piedi e alzava un braccio per afferrarlo, scappava, senza mostrarsi molto spaurito, e tornava subito allo stesso posto.
- Pettirosso, perché non ti lasci prendere?
E il pettirosso rispondeva con un rapido trillo, quasi dicesse:
- Questo no!
- Pettirosso, mi vuoi bene?
E il pettirosso rispondeva con un lieve gorgheggio, quasi volesse dire:
- Tanto! Tanto!
- Pettirosso, dovresti venire a posarti su questo dito; ti darei un po' di zucchero.
E glielo mostrava.
Il pettirosso faceva le viste di accorrere, aliava attorno alla mano con l'indice teso, e via su la rama a dondolarsi e a trillare.
- Pettirosso, sei cattivo. Non canterò più.
Il ramaio, dalla bottega, le dava la voce:
- Cingallegra, con chi parli? Parlo da me! vi dispiace?
Ah! Diventava impertinente! Indispettito della risposta, il ramaio la minacciò:
- Per le matte c'è il bastone.
E salito su, disse alla figlia maggiore:
- Quando Cingallegra è nell'orto, affacciati alla finestra di cucina senza farti scorgere da lei. Guarda che cosa fa e con chi parla.
Il giorno dopo egli fu stupito di sentire che Cingallegra parlava con un pettirosso.
- Cingallegra ha trovato marito! - la schernì a cena la sorella.
- Meglio di Reginotta, che non trova un cane che la voglia.
Il ramaio le allungò un ceffone:
- Non si risponde così alla sorella maggiore!
L'indomani, il sole era alto, e Cingallegra non si era levata dal letto.
- Cingallegra, c'è da. fare il bucato.
- Reginotta ha le mani come me.
- Cingallegra, e il desinare?
- Reginotta ha le mani come me.
Ma che cosa era accaduto da farla diventare tutt'a un tratto così impertinente?
- Cingallegra, c'è tuo marito nell'orto. Ah ah!
Il pettirosso trillava forte e gorgheggiava: pareva che chiamasse e si spazientisse di attendere.
Alla intonazione di scherno e alla risata della sorella, Cingallegra balzò giù dal letto, dicendo:
- Il Reuccio non è mai venuto a cantare per te!
E, appena vestitasi, corse ad affacciarsi alla finestra, che dava nell'orticello. Il pettirosso si sgolava; volava attorno, saltellava da un ramo all'altro, e Cingallegra godeva di vederlo stizzito a quel modo. Gli aveva detto:
- Pettirosso, sei cattivo! Non canterò più.
E voleva mantenere la parola.
Ma ecco che l'uccellino va a posarsi sul davanzale e si lascia prendere e accarezzare, e risponde alle carezze con delicati colpettini di becco sulle dita.
- Ti sei finalmente deciso? Ora ti metto in una gabbia e starai sempre con me.
Così erano due che cantavano da mattina a sera, con gran fastidio di Reginotta: Cingallegra, intanto: che spazzava, o spolverava, o faceva bollire il bucato, o sciorinava i panni, o preparava il desinare e la cena; e il pettirosso che dalla sua bella gabbia l'accompagnava con tali acuti trilli e gorgheggi da sembrare che facessero a gara a chi cantasse più forte. La gente si fermava ad ascoltarli dalla via.
- Brava, la Cingallegra del ramaio! Brava! Brava!
Reginotta masticava bile; e se qualcuno tornava a domandare, scherzando:
- Ramaio, quando mariterete le figliole? - ella rispondeva, prima di suo padre:
- Badate ai fatti vostri, e non vi curate di quelli degli altri!
Il ramaio però, cocciuto, soggiungeva subito:
- Presto. La maggiore la darò a un Reuccio, l'altra a chi vuol pigliarsela.
- Me la piglio io!
Il ramaio si voltava di qua, e di là, per scoprire se qualcuno nascosto in fondo alla bottega avesse risposto in quel modo.
- Chi sei tu, che vuoi pigliartela?
- Io! Io! Io! Io! Io! Io!
Era il pettirosso che sembrava rispondesse così; con uno dei suoi più squillanti trilli. Possibile?
- Hai inteso? - disse il ramaio alla figlia maggiore che, non contenta di starsene, ben pettinata, ben agghindata, alla finestra, scendeva, da un pezzo, a sedersi davanti all'uscio della bottega, per mettersi più in mostra.
- Hai inteso? Ti par naturale che un pettirosso risponda cosi?
E ripeté:
- Chi sei, che vuoi pigliartela?
- Io! Io! Io! Io! Io! Io!
A quel trillo squillante del pettirosso, Reginotta si rizzò a sedere inviperita, e corse su per afferrarlo e torcergli il collo. Ma appena toccò la gabbia per aprire la porticina: - Ahi! Ahi! Ahi! - le dita delle mani le si contorsero orribilmente; più non parevano di creatura umana, ma di qualche bestia mostruosa, con le ugne aguzze, e tutte coperte di scaglie.
Sentendo strillare e piangere la sua prediletta, il ramaio accorse, furibondo; ma alla vista di quelle mani miseramente deformate, rimase di sasso. Accorse anche Cingallegra che non sapeva niente di quel che era accaduto.
- Scellerata! Scellerata! Guarda che cosa ha fatto il tuo pettirosso!
- La colpa non è mia, babbo!
- Voleva ammazzarmi!
Anche Cingallegra fu spaventata sentendo parlare il pettirosso. Era dunque un uccellino fatato? Cingallegra ne aveva avuto qualche sospetto; ora però non ne poteva dubitar più. E non osava accostarsi alla gabbia, nè rivolgere la parola al pettirosso. Le mani contorte e scagliose di Reginotta le fecero gran pietà. Era stata punita giustamente del tentativo feroce; ma Cingallegra pensava che sua sorella aveva l'animo irritato dal non vedersi richiesta da nessuno, e che per ciò era degna di compatimento e di perdono, se non aveva saputo frenarsi.
Si fece animo, si chinò sulla gabbia dove il pettirosso saltava da uno stecco all'altro, e mormorò teneramente:
- Te ne prego, pettirosso mio!
E intendeva dire: - Restituiscile le mani bianche e belle come prima.
La porticina della gabbia si aperse da sé, e il pettirosso venne fuori, volò sulle mani di Reginotta, e cominciò a beccargliele delicatamente. In meno che si dice, erano diventate belle bianche come prima.
La superbiosa non ringraziò neppure con un cenno del capo; voltò le spalle e andò ad affacciarsi alla finestra, come se niente fosse stato.
E il mezzanino e l'orticello tornarono a risonare dei canti di Cingallegra e del pettirosso, e la bottega del ramaio dei colpi di martello con cui egli batteva, su l'incudinetta a paio, caldaie, pentole, paioli, padelle. Sempre di buon umore, dava la voce ai passanti di sua conoscenza; ma se qualcuno gli domandava: - Ramaio, quando mariterete le vostre figliole? - invece di rispondere al solito, picchiava rabbiosamente col martello su l'oggetto che aveva per le mani: pentola, padella, paiolo o caldaia, e brontolava le parole così sottovoce, da non far intendere quel che diceva. Diceva:
- Pur troppo ho paura che mi spighiscano in casa! - E intendeva particolarmente la maggiore.
Il pettirosso di Cingallegra, dopo quel che aveva visto e udito, lo faceva fantasticare.
- Chi era quell'uccellino fatato?Forse il Reuccio destinato alla figliola maggiore. Vedendo nell'orticello soltanto Cingallegra, l'aveva sbagliata, e forse anche si era lasciato lusingare dalla voce di lei.
- Perché non canti tu pure? Chi sa non venga un pettirosso fatato anche per te.
Reginotta alzò sdegnosamente le spalle e non rispose.
- Ne ho pensato un'altra. Comprerò una gabbia e un pettirosso identici a quelli di Cingallegra, li scambieremo, e...
Reginotta, senza neppure lasciarlo finire di parlare, alzò sdegnosamente le spalle e non rispose.
Il padre, che le voleva troppo bene, si angustiava di vederla continuamente triste a quel modo; e malediva il momento in cui gli era venuto in testa di dire alla gente:
- La maggiore la darò al Reuccio, l'altra a chi vuol pigliarsela!
Una mattina entrò nella bottega un giovane, di aspetto rozzo, vestito da contadino, con scarpe grosse e cappellone di paglia.
- Compare, che cosa cercate?
- Una pentola e una moglie.
- La pentola eccola qui. La moglie... Sentite? Ho una figlia che canta meglio d'una cingallegra; se la volete pigliatevela.
- Non compro gatta in sacco.
- Ve la faccio vedere. Ohe, Cingallegra!
Invece di Cingallegra, si presentò Reginotta.
- Questa non è per voi.
- Allora... tornerò domani.
- E la pentola?
- Pentola e moglie tutto a una volta.
E appena colui era andato via, accorse Cingallegra.
- Dov'eri? Che cosa facevi?
- Governavo il pettirosso.
- Hai perduto la fortuna: un marito.
- Il marito che mi vuole sarà qui fra otto giorni.
Il ramaio e la Reginotta si guardarono stupiti. E questa fece subito:
- Dovrà sposare prima di me?
Era diventata verde dalla bile.
Otto giorni dopo;.il contadino tornava.
- Compare, che cosa cercate?
- Una pentola e una moglie.
- La pentola eccola qui. La moglie... Oh! Cingallegra! Se la volete pigliatevela.
Invece di Cingallegra si presentava Reginotta.
- Questa non fa per me. Tornerò domani.
- Aspettate: ecco l'altra mia figliola.
Il contadino quasi cantilenando disse:

- Manine che per gli altri vi sciupate,
D'oro e brillanti coperte sarete;
Piedini che per casa troppo andate,
Su bei cuscini vi riposerete;
Vocina che nell'orto ora cantate,
Gioia di casa mia diventerete.

- Cingallegra, mi volete?
- Vi voglio se vuole mio padre.
- Ne riparleremo, compare, quando avrò maritata la maggiore.
Reginotta aveva dato al padre un'occhiataccia; per questo il ramaio rispondeva così.
- Allora... tornerò tra un mese.
- E la pentola?
- Pentola e moglie tutto a una volta.
Reginotta, dalla bile, era diventata ancora più verde. Quel zoticone, aveva osato dire: - Questa non fa per me!
Cingallegra intanto era tornata su, e cantava, cantava, sventolando il fuoco sotto i fornelli. Il pettirosso che già aveva imparato bene, cantava insieme con lei, e si facevano udire per tutta la via. E la gente:
- Brava Cingallegra e il suo pettirosso!
Un mese dopo, riéccoti il giovane contadino.
- Compare, che cosa cercate?
- Una pentola e una moglie.
- La pentola eccola qui... La moglie...
- Eccola qua! Mi volete, Cingallegra?
- Vi voglio, se vuole mio padre.
- E pigliatevela e portatela via! Ma senza dote né niente! - rispose il ramaio che non ne poteva più.
- La sola gabbia del pettirosso!
- E una pentola, Cingallegra!
- Niente, neppure una padellina! - disse il ramaio.
- Tenetevi pentole, paioli, padelline, caldaie; sono tutti bucati e non servono!...
Il ramaio non aveva badato a queste parole. Ma non appena Cingallegra e il suo sposo erano andati via portando con sé soltanto la gabbia vuota, perché il pettirosso una mattina era scomparso, il ramaio cominciò a disperarsi. Quando era sul punto di dar l'ultimo colpo a una pentola, a un paiolo, a una padellina, a una caldaia, gli accadeva di picchiare così forte col martello, da farvi un buchino. E più egli tentava di rimediare quel guasto, e più il buchino si allargava. Gli avventori venivano, guardavano bene, e accorgendosene non compravano; e così la bottega si screditava.
Di Cingallegra e di suo marito non si sapeva nessuna notizia. Ora il ramaio rimpiangeva quella figliola da lui maltrattata per dar ragione alla sorella maggiore; la casa era divenuta un sudiciume, non ostante che egli avesse dovuto prendere una donna per i servigi. Si desinava male, si cenava peggio: e per giunta gli affari andavano a rotta di collo con quelle caldaie, pentole, padelle, e quei paioli tutti bucati che nessuno voleva comprare.
Intanto Reginotta continuava a menare la stessa vita di prima; si levava da letto tardi, e poi ben pettinata, bene agghindata, se ne stava alla finestra o giù in bottega per mettersi in mostra: e non si accorgeva che gli anni passavano e che lei, dalla bile, imbruttiva.
Ma un giorno ci mancò poco che non le cogliesse un accidente. Era venuto un giovane signore a comprare molti oggetti di rame. Sceglieva questo e quello, senza osservarli bene e faceva mettere da parte gli oggetti di suo gradimento: un gran cumulo. Il ramaio si sentiva tremare il cuore pensando:
- E se si accorge dei buchini?
Quel signore continuava a scegliere senza osservare bene gli oggetti; sembrava che volesse proprio portar via tutta la bottega.
- E questa quando la mariteremo? L'altra è stata fortunata, sposando un cugino del Re!
- Un contadino, volete dire!
- Un cugino del Re, ragazza mia. Come? non lo sapete?
- E dove si trovano? - domandò il ramaio.
- Come? Non lo sapete? Si cammina un giorno e una notte e si arriva a piè di una montagna coperta di boschi. In alto, a mezza costa, c'è il gran castello del cugino del Re. Per ora si trovano colà... Facciamo il conto, ramaio.
Il ramaio volle mostrarsi onesto, e gli disse:
- Prima di pagare, signore, riguardare bene gli oggetti.
Guarda, volta, rivolta, con stupore del ramaio, non c'era in nessuno di essi il minimo buchino.
- Mettete ogni cosa da parte; manderò un servitore domani.
Pagò e andò via.
- Perché piangi, figliola?
- Perché sono disgraziata!
- Non disperare. Com'è venuta la fortuna per tua sorella, verrà un giorno o l'altro anche per te.
Una mattina il ramaio vide fermarsi davanti alla bottega un ragazzaccio col vestito a sbrendoli e i piedi scalzi; sembrava mezzo scemo.
- Che cosa vuoi? Come ti chiami?
- Mi chiamo Reuccio.
Il ramaio trasalì. E senza chieder altro, lo invitò a entrare, a sedersi e corse su dalla figliola.
- È arrivato il Reuccio! Travestito, per non farsi riconoscere; i grandi sogliono fare così.
Reginotta, fuor di sé dalla gioia e dalla vanità, si alzò, si agghindò, e scesa giù, si fece avanti con un grand'inchino:
- Ben venuto, Reuccio!
- Questa è mia figlia, Reuccio!
Un grand'inchino anche lui, e soggiunse:
- Comandate, ordinate; fate come se foste in casa vostra.
- Datemi una bella fetta di pane. Non mangio da ieri.
- Altro che pane, Reuccio! E mandò la donna a far spesa larga.
A Reginotta quegli sbrendoli parevano una ricchezza. Pensava che il Reuccio, travestendosi a quel modo, le dava una gran prova di affezione. E vedendolo divorare come un lupo, a tavola, pensava che doveva costargli molto il fingere di essere affamato.
Più Reuccio mostrava in viso il gran stupore di vedersi trattato così, e più il ramaio e la figlia si confermavano che fosse venuto in incognito per conoscerla meglio.
- Ti ha detto niente? domandava il padre.
- Niente. E a te? Aspettiamo!
- Aspettiamo!
Reuccio mangiava, beveva, dormiva, ingrassava a vista d'occhio, ma di chiedere la mano della figlia del ramaio non se ne ragionava.
Il ramaio tentava di portare il discorso intorno alle nozze, ma Reuccio non capiva o fingeva di non capire.
La figlia fu meno paziente del padre, e una mattina disse a Reuccio:
- Se siete venuto per sposarmi, sposiamoci subito.
- Ah! Ah! Ah!
Reuccio si contorceva dalle risa.
- Perché ridete, Reuccio?
- Ahi Ah! Ah!.. Sposiamoci pure!
- Così, con codesti cenci?
- Fatemi voi un bel vestito. Ah! Ah! Ah!
Reuccio rideva come un matto.
Reginotta era dispiacente di dover sposarsi senza carrozze, senza festa, come una popolana qualunque; ma, pur di diventare Reginotta davvero, si rassegnava. La festa e il resto verrebbero poi; e allora toccava alla Cingallegra di crepare di invidia e di rabbia.
Sposarono alla chetichella. Ma trascorsi parecchi giorni, e vedendo che le cose andavano come prima, cioè che colui mangiava, beveva, dormiva, ingrassava, e non accennava a condurla al palazzo reale del suo regno, Reginotta non si ritenne più:
- Insomma, Reuccio, quando andiamo al palazzo reale?
- Quando voi volete, moglie mia.
La prese sotto il braccio e la condusse davanti ai palazzo reale.
- Non entriamo?
- Non s'entra, ci sono le guardie.
- E voi non siete il Reuccio? Non comandate ad esse?
- Mi chiamo Reuccio ma non sono Reuccio.
- Non siete Reuccio? Ah furfante!
E gli si gettò addosso, per accopparlo.
Ma Reuccio le assestò certi pugni sul viso da illividirle le guance. Accorse gente, e li divisero. Tutti domandavano:
- Che cosa è stato? Niente. La figlia del ramaio che letica col marito!
Tornò a casa sola, mezza pazza dal gran disinganno.
- Questa è una infamità di mia sorella Cingallegra!
- Non era il Reuccio?
- No babbo: si chiamava Reuccio! Che vergogna! Che vergogna! Bisogna andar via da questo paese, o m'impicco a una trave!
Il padre che ora, vedendola così disgraziata, le voleva più bene, fece caricare tutta la roba su due carri. Partirono di nottetempo.
Dopo un giorno e una notte, arrivarono a piè di una montagna coperta di boschi. A un punto della strada, incontrarono un cacciatore.
- Non proseguite, buona gente. È straripato il fiume e ha inondato la campagna.
- Grazie, cacciatore. E dove potremo ricoverarci?
- Venite con me. Starete bene.
Potevano mai immaginarsi di capitare nel castello dov'era sposa felice Cingallegra, e che quel cacciatore fosse il principe Pettirosso?
Ma Cingallegra li accolse con tanta cordialità, che la superbiosa Reginotta sentì spezzarsi il cuore e pianse dolcissime lacrime di ravvedimento. Il ramaio poi non stava nei panni dalla contentezza di aver ritrovato sua figlia Principessa come si ostinava a chiamarla, non ostante che lei e il Principe gli ripetessero:
- Siamo sempre Cingallegra e Pettirosso.
Quel che avvenne dopo, e perché il Principe si chiamasse Pettirosso, ve lo racconterò un'altra volta, se vi piacerà di saperlo. Per oggi, al solito:
Larga la foglia, stretta la via
Dite la vostra che ho detto la mia.



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IL PRINCIPE PETTIROSSO di L. Capuana

C'era una volta...
Sì, sì, non ho dimenticato la promessa; parola di Raccontafiabe è parola di Re; ed ecco la storia del principe Pettirosso.
Dunque c'era una volta un Principe e una Principessa giovani e sposati da qualche anno; lui, buono, gentile, caritatevole; lei, bella, ma piena di capricci e talvolta superbiosa e crudele. Comandava, e voleva essere subito obbedita; esprimeva un desiderio e pretendeva che fosse immediatamente soddisfatto. Se qualcuno dei servitori, dei dipendenti, non intendeva bene i suoi ordini, o li eseguiva male, diventava una furia. Invano il marito tentava di rabbonirla:
- Principessa!... Principessa!...
Si rivoltava contro di lui, gli rispondeva con parolacce che non stavano punto bene in bocca di una dama sua pari.
Una volta si era incapriccita di una pianta del giardino che circondava il castello dove essi abitavano. L'annaffiava lei, la ripuliva lei; guai se il giardiniere si permetteva di levar via una foglia avvizzita e cascata per terra!
Una pianta comune: ma la Principessa si era messa in testa che dovesse far fiori e frutti rari.
Una sera, scende in giardino e scorge tra i rami fili di paglia, con alcune piumine e il groviglio di un po' di refe. Le parve un delitto.
- Giardiniere, che significa questo?
- Qualche coppia di uccellini si prepara il nido, Principessa.
- Buttate via ogni cosa; non voglio nidi su la mia pianta.
E il giardiniere, presi quei fili di, paglia, quelle piumine, quel po' di refe, ne fece un batuffolo e lo buttò via.
Fra i rami di un'alta pianta vicina due uccellini svolazzavano e strillavano, quasi piangessero di veder dispersi quei primi materiali del loro nido.
- Poverini! - esclamò sotto voce il giardiniere.
E, il giorno dopo, vedendoli andare e venire affannosamente, portando coi becchi fili di paglia, piume, foglie secche, grovigli di refe, biòccoli di lana e cose simili, per ricostruire con ostinatezza il nido nel posto già scelto, il giardiniere li compiangeva:
- Verrà la Principessa e vi disfarà ogni cosa! Mancano piante e rami, poverini!
Ma gli uccelletti non intendevano le parole del giardiniere, e andavano e venivano affannosamente; verso sera, il loro nido era già bell'e finito.
Appena la Principessa lo scòrse tra i rami, se la prese col giardiniere.
- Che colpa ne ho io? Poverini, hanno fretta di depositarvi le ova.
- Ah sì? Domani ne farò una frittatina pel gattino.
Attese che la femmina avesse terminato di deporre le ova, e ordinò al giardiniere:
- Portatemele in cucina, e disfate quel nido!
Il giardiniere obbedì a malincuore: aveva le lacrime agli occhi sentendo gli strilli degli uccellini che parevano un pianto.
La crudele Principessa ruppe di sua mano gli ovicini in un tegamino, vi aggiunse, cacio e pane grattato, e ne fece, come aveva detto, una frittatina pel gattino che le stava tanto a cuore.
Il gattino esitava a mangiarla, miagolava, si ritirava indietro. Ma quando la Principessa si era ficcata in testa una cosa, non c'era verso di farla desistere.
- Il gattino non ha fame - gli disse il Principe.
- Fame o non fame, deve mangiare questa frittata; l'ho fatta apposta per lui.
Il gattino, preso pel collo, col muso nel tegamino, dovette mangiare per forza. Ma aveva appena ingoiato l'ultimo boccone, che - Meo! Meo! Meo! - stirava le gambe e moriva, quasi avesse preso un veleno.
La Principessa rimase scossa da quella disgrazia; il gattino era la sua bestiolina prediletta.
E la notte dopo fece un brutto sogno. Si destò atterrita:
- Ah, Principe, se sapeste che cosa ho sognato!
- Che cosa, Principessa?
- Tante piume, tante piume fioccavano giù dal cielo come falde di neve, ed io mi trovavo appesa al collo una padellina di rame. Le piume mi toglievano il respiro: la padellina pesava, pesava... È un triste presagio, certamente.
- Si sognano tante sciocchezze, Principessa!
- No, Principe! Bisogna consultare coloro che spiegano i sogni.
- Li consulteremo,.. Intanto non vi affliggete per così poco!
Furono chiamati parecchi sapienti. Stettero a sentire, seri, con le sopracciglia corrugate, sfogliarono a lungo i libroni che avevano portati con loro. Chi diceva una cosa, chi un'altra, e ognuno affermava che la sua spiegazione era la vera.
- Mettetevi d'accordo, signori miei!
Il Principe non poteva persuadersi che quelle piume fioccanti dal cielo e quella padellina di rame appesa al collo di sua moglie significassero tante opposte cose.
- Mettetevi d'accordo, cari miei!
Invece di mettersi d'accordo, quei sapienti finivano col darsi vicendevolmente dell'asino, e con lo scaraventarsi addosso i loro grossi,volumi.
La Principessa non si dava pace.
- Bisogna consultare un gran Mago! La cosa è troppo intrigata, se nessuno di questi sapienti è riuscito a spiegarla.
- Si sognano tante sciocchezze, Principessa!
- No, Principe! Questa volta ho un grande sgomento nel cuore.
- Consulteremo il mago Barba-d'oro. Lo manderò a chiamare al castello.
E spedì persona fidata con ricchissimi doni.
Il mago Barba-d'oro accettò i doni, ma quando sentì di che cosa si trattava, rispose sdegnato:
- Non sono il servitore di nessuno.

Sia signore, sia vassallo,
Né in carrozza, né a cavallo
Chi non viene coi suoi piedi,
Barba-d'oro non riceve.

Il messaggero tornò con questa risposta. Per arrivare alla abitazione del Mago bisognava camminare tre giorni e tre notti, attraverso luoghi incolti, infestati da bestie feroci, forteti, boscaglie, orridi sentieri. Il messaggero aveva temuto di non tornare vivo al castello.
- Mi sembra un bel modo di dirci: Non venite; è proprio inutile.
- No, Principe; a qualunque costo!
Se la Principessa era testarda per cosine da nulla, figuriamoci ora che viveva sotto lo strano terrore del suo sogno!
Invano il Principe si sforzava di convincerla che i sogni non hanno né capo né coda.
Le voleva bene, e vedendola ostinata a intraprendere il pericoloso viaggio, cominciò a sentirsi penetrare nell'animo lo stesso sgomento di sua moglie.
Quel sogno doveva essere un cattivo presagio!
E decisero d'andare a piedi dal mago Barba-d'oro.
Si misero in viaggio all'alba e camminarono tutta la giornata. La Principessa era così impaziente di avere la spiegazione del suo sogno, che non si curava della fatica e dei disagi del cammino.
- Riposiamoci un po', Principessa!
- Più in là, Principe, più in là.
Forteti, boscaglie, orridi sentieri; e la notte, sotto il cielo stellato senza luna, urli di bestie feroci, vicini, lontani, che li atterrivano e non permettevano ch'essi chiudessero un occhio.
Un giorno e una notte; e poi daccapo, un altro giorno e un'altra notte. Per quegli orridi sentieri non s'incontrava anima viva. Il povero Principe non ne poteva più.
- Riposiamoci un po', Principessa!
- Più in là, Principe, più in là!
Finalmente, il terzo giorno, verso sera, ecco tra gli alberi la casa del Mago. Con la facciata annerita dal tempo, tutta coperta di macchie di umido e di muffa verdastra, coi vetri delle finestre appannati dalla, polvere e dai ragnateli, quella casa ispirava ribrezzo.
La Principessa, col fiato al denti, con le gambe che le si piegavan sotto, fece uno sforzo, giunse davanti alla porta e picchiò.
Comparve il mago Barba-d'oro.
- Ah, Principessa, Principessa, quanto vi costa una frittatina!
Il Principe e la Principessa allibirono.
- Entrate, ristoratevi, e andate a letto. Domani, con comodo, riparleremo del sogno.
Il Principe e la Principessa allibirono. Quel Mago sapeva tutto!
Il giorno dopo il sole era già alto ed essi dormivano ancora. Se non la svegliava il Principe, la Principessa avrebbe dormito fino a tarda sera.
Il Mago li attendeva nel suo laboratorio.
- Ah, Principessa, Principessa, quanto vi costa una frittatina!
- Perché, mago Barba-d'oro?
- Non lo sapete che i nidi sono cosa sacra? Distruggere un nido è come appiccare il foco a una casa. Voi avete impedito di nascere a sei creature di Dio e per malvagità, non per altro. Ne sarete gastigata. In che modo io non so dirvelo. Ve lo dirà la fata Cicogna.
- E dove si trova la fata Cicogna?
- Guardate da questa finestra: laggiù, laggiù, su quel tetto.
- Badate però di non chiamarla fata Cicogna, ma fata Splendore. Le piume e la padellina di rame del sogno significano il vostro gastigo. Ah, Principessa, :Principessa, quanto vi costa una frittatina!
- Grazie, mago Barba-d'oro!
E all'alba del giorno dopo partirono.
Cammina, cammina, cammina, e al tetto della fata Cicogna, che dalla finestra era parso così vicino, non si arrivava mai.
La Principessa non osava di rifiatare, pensando che tutti quei disagi il Principe li soffriva per colpa di lei. Ma forse essi erano niente, in confronto dei guai che li attendevano. Il mago Barbad'oro aveva ripetuto più volte:
- Ah, Principessa, Principessa, quanto vi costa una frittatina!
Giunsero alfine, stanchi morti.
La fata Cicogna stava sul tetto, ritta sopra un piede, col collo nascosto sotto un'ala; dormiva.
Attesero che si svegliasse. Abbassò l'altro piede, distese il collo, sbatté le ali e mandò fuori un rauco grido, che parve sbadiglio.
- Fata Cicogna, fata Cicogna, ci manda il mago Barbad'oro.
Nello sbalordimento, la Principessa aveva dimenticato di chiamarla fata Splendore.

- Ha fatto mala bisogna
Chi cerca fata Cicogna:
Fra le piume nasce un giglio,
È figlio e non è figlio.
Padella preparata
Frittata e non frittata.

Aperse le ali, tese i piedi e la fata Cicogna volò via.
- E ora come faremo? Bisognava dire fata Splendore!
- Torniamo dal Mago; ci consiglierà.
E rifecero la strada.
- Ah, mago Barba-d'oro! Mi scappò detto fata Cicogna!
- Non vi perdete d'animo. Fate fare un gran nido d'oro e portateglielo; non c'è altro rimedio, Principessa.
- Faremo fare un gran nido d'oro - disse il Principe. - Ma che cosa significano le parole: È figlio e non è figlio? Frittata e non frittata?
- Ve lo deve dire soltanto fata Cicogna.
Tornarono al castello, che erano quasi irriconoscibili, ed ordinarono subito un gran nido di cicogna tutto d'oro. Quando fu pronto, dopo un mese, Principe e Principessa si rimisero in cammino, ma questa volta a cavallo, e andarono direttamente da fata Cicogna.
Stava sul tetto, ritta sopra un piede, col collo nascosto sotto un'ala: dormiva.
Attesero che si svegliasse.
- Fata Splendore, fata Splendore, ci manda il mago Barba-d'oro.
lo mi chiamo Cicogna e non Splendore!
Principe e Principessa si guardarono in viso, contristati.
- Accettate, vi preghiamo, questo povero nido.
Fata Cicogna stese il collo, afferrò col becco il nido d'oro e lo ripose sul tetto.

Ha fatto mala bisogna
Chi non cerca fata Cicogna.
Tra piume nasce un giglio,
È figlio e non è figlio.
Padella preparata,
Frittata e non frittata.

Aperse le ali, tese ì piedi e fata Cicogna volò via.
Principe e Principessa non se l'aspettavano. La Principessa non aveva sbagliato.
- Ho detto: fata Splendore: è vero?
- Sì, fata Splendore.
- O dunque?
- Torniamo dal Mago, ci consiglierà.
- Non vi perdete d'animo - disse il Mago. - Fate fare due ova d'argento grosse quanto le ova di cicogna e portategliele.
- Ma come bisogna dire: fata Cicogna o fata Splendore?
- Sempre fata Splendore.
E un mese dopo furono di ritorno con le due ova d'argento.
- Fata Splendore, fata Splendore, ci manda il mago Barbad'oro. Accettate queste due ova.
Fata Cicogna stese il collo, afferrò col becco prima uno poi l'altro ovo e li collocò nel nido d'oro e vi si accoccolò come per covarli.

- Ha fatto buona bisogna
Chi ha cercato fata Cicogna.
Tra piume nasce un giglio,
È figlio e non è figlio.
Padella preparata,
Frittata e non frittata.

Quando avrò covato quest'ova, tornate e saprete.
- Quanto ci vorrà?
- Il sole ora spunta da quel monte, dovrà spuntare da quella collina.
Il Principe calcolò che ci volevano tre mesi.
E, passati i tre mesi, rifecero il cammino.
Trovarono la fata Cicogna accoccolata nel nido d'oro, quasi per covare le ova d'argento.
- Fata Splendore, fata Splendore, spiegatemi il sogno, se vi piace.
- Avrete presto un figlio, e sarà uomo e sarà uccello...
- Che disgrazia, fata Splendore!
- ... fino ai vent'anni, Principessa. Poi diventerà un bel giovane, ma dopo aver trovato la sposa.
- E la padellina che cosa significa?
- Significa la sposa... Non dovete saper altro.
- Ma che uccello sarà nostro figlio?- domandò il Principe.
- Quel che la Principessa vorrà; passerotto o pettirosso.
- Pettirosso, fata Splendore.
- E pettirosso sia, Principessa. Principe Pettirosso è un bellissimo nome.
- Che disgrazia, fata Splendore!
- Avrebbe potuto accadervi di peggio: i nidi sono cosa sacra.
La Principessa era in grande angoscia, pensando che suo figlio fino ai vent'anni sarebbe stato un pettirosso.
E quando partorì e fece un bel bambino non credeva ai suoi occhi.
- Fata Cicogna...
- No, fata Splendore - la corresse il Principe.
- Fata Splendore ha voluto metterci paura. Tanto meglio che sia finita così Però...
- Però?
- Non son, però, rassicurato del tutto.
- Non siate il corvo del malaugurio pel bambino.
- Stiamo a vedere.
- Stiamo a vedere.
Una mattina la Principessa, mutando i pannolini al bambino, diè un grido di orrore.
Tutto il corpicino della sua creatura era coperto di una peluria gialliccia come quella dei pulcini appena nati. E il corpicino pareva già un po' dimagrito, quasi rattrappito.
- Figliolino, figliolino mio!
La Principessa aveva fin ribrezzo di toccarlo.
Di giorno in giorno la trasformazione diveniva più evidente. I braccini prendevano la forma di ali e si coprivano di piume; le gambine si assottigliavano e le dita dei piedi si allungavano in zampine con ugne aguzze. E di mano in mano che le piume invadevano tutto il corpicino che si rattrappiva, si rattrappiva, nasino e labbra si foggiavano in becco.
In meno di due mesi, il bambino era diventato il più bel pettirosso che si potesse vedere.
Principe e Principessa avevano vergogna di far sapere che il loro figliolino era diventato un pettirosso. Dissero che lo avevano mandato a balia, lontano. Ma questa finzione non valse.
Quando il bambino avrebbe dovuto poter dire: - Babbo! Mamma! - lo disse il pettirosso, che la Principessa teneva posato su un dito, e n'ebbe paura e gioia quasi nello stesso momento.
Non lo potevano più tenere in gabbia: voleva volare qua e là, fare il chiasso con gli altri uccellini su pei rami degli alberi del giardino.
- Non aver paura, mamma! Non aver paura, babbo!
E volava via; e li chiamava dalla cima di un albero, dalla grondaia di un tetto:
- Mamma! Babbo! - E spesso portava con sé uno stormo di altri uccellini, passerotti, capinere, cardellini, raperini, pettirossi come lui. Entravano con un gran frullio d'ali, s'inseguivano di stanza in stanza, si posavano sulle cornici dei quadri e degli specchi, sui tavolini, sui letti, indisturbati, perché il Principe e la Principessa avevano paura d'incappare in qualche guaio peggiore di quello sofferto e per cui soffrivano ancora.
Anzi la Principessa, visto che quell'invasione ormai accadeva ogni giorno, buttava qua e là miglio, midolle, bricioli, canapuccia, scagliòla, insalatina tritata, e teneva preparati beverini con acqua, ciotoline per potervisi bagnare.
Si sarebbe divertita anzi, vedendosi trattata con tanta familiarità da tutti quegli uccellini che, prima, al suo apparire in una stanza, scappavano, se essi, in compenso, avessero badato un poco alla pulizia. Invece, sporcavano da per tutto, cantando, trillando, pigolando, quasi fossero in piena campagna.
- Ah, .figliolo, figliolo! Dovresti farglielo capire.
- Compatiscili, mamma; non sanno di far male.
E in aprile e maggio, il castello era pieno di nidi. Non c'era stanza dove i passerotti, i cardellini, le capinere, i pettirossi non ne avessero collocati due, tre, come se il castello fosse stato casa loro.
La Principessa ne trovava su le mensole, su i tavolini, negli angoli per terra, su i cassettoni, su gli armadi, su i canapè, su le poltrone, appesi alle branche delle lùmiere, dei saloni; e dei salotti, fin sul cielo del cortinaggio di camera.
Ed era un andare, un venire, un pigolare di uccellini appena scovati e affamati con le testine in aria e i beccucci spalancati.
- Ah, figliuolo, figliuolo!
- Quando sarò cresciuto, non avverrà più, mammina!...
E quantunque fossero già trascorsi dodici anni, e il Principino parlasse spesso con lei, la povera Principessa non sapeva ancora difendersi da un'impressione di paura.
Erano passati dodici lunghi anni, che al Principe e alla Principessa erano parsi dodici secoli!
Ora il principino Pettirosso scappava via due volte al giorno e non si sapeva dove andasse. Andava certamente lontano, perché non si udiva più nei dintorni il gorgheggio del suo canto.
- Principino, dove andate? Vado in cerca della sposa.
- Principessa come voi, non dimenticate la vostra qualità.
- E più buona che bella. Principessa o no, non importa.
- Sì, mamma! Sì babbo!
E scappava via; e quando tardava a ritornare, Principe e Principessa passavano ore di angoscia mortale.
- Che gli sia capitata qualche disgrazia?
- Non gli facciamo il cattivo augurio ....
Appena,arrivava:
- Dove siete stato, Principino?
- Avete trovato, Principino?
- Sono stato in cento posti, ma non ho ancora trovato nulla.
- Come? Non ci sono più Principesse a questo mondo?
- Ce ne sono, mamma, anche troppe, ma non fanno per me.
- E le altre donne?
- Babbo, le buone non sono belle, e le belle non sono buone, quelle che ho viste, intendo dire. Cercherò, ho ancora tempo un anno.
- Principessa come voi, non dimenticate la vostra qualità.
- E più buona che bella. Principessa o no, non importa.
- Sì, mamma! Si, babbo!
E scappava via.
La Principessa non poteva sopportare che il Principe dicesse al figlio: - Principessa o no, non importa.
- Come, non importa? Deve dunque abbassarsi fino al fango della terra?
- Chi ha mai detto questo? Più buona che bella non significa fango, mi pare.
- Vedrete che il Principino commetterà qualche sciocchezza.
- Ne commettiamo tutti
- Ah! Mi rinfacciate ancora?! ....
E continuavano a bisticciarsi, fino al ritorno del principino Pettirosso.
- Avete trovato?
- Non ho trovato!
- Mancano Principesse?
- Manca quella che vorrei io.
- E le altre donne?
- Le buone non sono belle; le belle non sono buone, quelle che ho viste, intendo dire. Cercherò ancora, babbo!
- Principessa, come voi!
- E più buona che bella. Principessa o no, non importa.
- Sì, mamma! Sì, babbo!
E scappava via.
Un giorno, finalmente, lo videro tornare con volo così impetuoso, che lo credettero inseguito da qualche uccello di rapina. Volava per la stanza, facendo giri, intrecci; sembrava ammattito. Ci volle un pezzetto prima che si calmasse.
- Che cosa accade, Principino?
- Ho trovato, mamma! Ho trovato!
- Una Principessa?
- Una più buona che bella?
- Principessa, e più buona che bella! Sposerò Cingallegra.
- Ah, figlio, figlio mio!
La Principessa dètte in un pianto che mai.
Chi era Cingallegra? Egli dunque s'immaginava di dover restare pettirosso per tutta la vita! Ci mancava quest' altra disgrazia!
- Chi è Cingallegra? - gli domandò il Principe, angustiato anche lui.
- Colei che canta nell'orto del ramaio.
- È dunque una giovane?
- Più buona che bella, come tu la volevi.
- Ed è figlia di un ramaio?
- È più Principessa di me che ora sono pettirosso - rispose ridendo.
- Ah figlio! Figlio mio!
E la Principessa, sentendogli dire queste cose, dava in un pianto più dirotto.
Ora il principino Pettirosso andava via avanti l'alba e tornava col sole non ancora alto.
- Donde venite, Principino?
- Da Cingallegra, mamma cara.
- Se mi volete bene, lasciatela andare. Cingallegra non fa per voi.
- Se la sentiste cantare, non direste così.
Ripartiva col sole vicino al tramonto e tornava prima che fosse sera inoltrata.
- Donde venite, Principino?
- Da Cingallegra, babbo caro.
- E come canta Cingallegra?
- Canta così.
Ma non gli riusciva di cantare con voce umana; gorgheggiava, gorgheggiava, e, dopo un pezzetto, si interrompeva:
- No, non è proprio così!
E in camera, o su un ramo d'albero del giardino, gorgheggiava, gorgheggiava, provando, riprovando, interrompendosi all'ultimo:
- No, non è proprio costi
La Principessa era inconsolabile. Pensava:
- Se non avessi distrutto il nido e rotto quegli ovicini, tutto questo non sarebbe accaduto! Ah, figlio mio, figlio mio!
Né lei, né il Principe, intanto, si ricordavano che il principino Pettirosso era già sul punto di compire i vent'anni.
Una mattina, che lo credevano volato via avanti l'alba, non vedendolo ritornare all'ora solita; Principe e Principessa stavano in gran pensiero.
- Che gli sia accaduto, qualche disgrazia?
- Non gli facciamo il cattivo augurio!
E si misero alla finestra, guardando verso il punto d'onde pel solito lo vedevano spuntare.
Sentirono rumor di passi alle spalle...
Principe e Principessa credettero impazzire dalla gioia.
- Sono io, mamma! Sono io, babbol
Il Principino aveva cessato di essere pettirosso, ed era un bel giovane, biondo come la madre, alto e ben fatto come il padre. I baci e gli abbracci non finivano più.
La Principessa si immaginava che ora il Principino non avrebbe più parlato di Cingallegra.
Invece ne riparlò subito. La madre ne fu desolata. II padre, più condiscendente, diceva:
- Poiché è più buona che bella!
- La figliola di un ramaio! Non acconsento! Non acconsento!
Il Principe, per calmarla, le disse:
- Andiamo a prender consiglio dal mago Barba-d'oro.
- Andiamo a prender consiglio dalla fata Cicogna, che ne sa più di lui!
Si decisero per la fata Cicogna.
Ma la mattina che stavano per partire, alzano gli occhi e che cosa veggono? La fata Cicogna su una torretta del castello; il nido d'oro luccicava al sole sotto di essa, e tra l'intreccio delle barrette che figuravano da sterpi, si scorgeva il bianco degli ovi d'argento.
- Oh, fata Cicogna, noi venivamo da voi!...

Ha fatto mala bisogna
Chi ha detto fata Cicogna.

- Fata Splendore! Fata Splendore! - gridò allora la Principessa.

Tra le piume è nato un giglio,
Non era figlio ed ora è figlio.
Padella preparata,
Frittata e non frittata!

Aperse le ali, tese piedi, e la fata Cicogna volò via.
- Volete una risposta più chiara? - disse il Principe.
La Principessa chinò il capo, abbattuta.
- Padella preparata, è evidente, significa la figlia del ramaio.
- E frittata e non frittata che vorrà significare?
- Significa, credo, che tutto anderà pel suo meglio. Ci ha lasciato il nido d'oro e le uova d'argento; è il buon augurio agli sposi.
Come il principe Pettirosso sposasse Cingallegra voi lo sapete da un pezzo e sapete anche che il ramaio e Reginotta furono accolti nel castello e beneficati da loro.
Apprenderete oggi il resto, e le due fiabe saranno compiute. Quando il principe Pettirosso rispondeva, ridendo, al padre:
- È più Principessa di me, che ora sono pettirosso - sapeva bene quel che diceva.
In uno di quei giorni che volava attorno da mattina a sera in cerca di una sposa, Principessa come voleva sua madre, o più buona che bella come gli suggeriva suo padre, il Principino aveva incontrata la fata Cicogna.
- Dove vai, piccolo pettirosso?
- Cerco la mia fortuna, una moglie.
- Vieni con me, te la trovo io.
- Principessa?
- Principessa.
- Più buona che bella?
- Più buona che bella! Eccola là.
E gli mostrò Cingallegra che cantava, sciorinando i panni nell'orto.
- Più buona che bella può darsi, ma Principessa...
- Principessa quanto te e più di te.
- Come mai?
- L'hanno scambiata a balia: e i parenti non se ne sono accorti. La figlia del ramaio aveva una voglia di fragola sotto l'ascella, e Cingallegra non l'ha. Cingallegra è figlia di Principi. Ti basti di saper questo.
Infatti un giorno, a tavola, il principe Pettirosso disse al ramaio:
- Vostra figlia dovrebbe avere una voglia di fragola sotto l'ascella.
- Certamente; sembrava una fragoletta davvero.
- Ma Cingallegra non l'ha.
- Non l'ha?
E così fu confermato quel che aveva detto fata Cicogna.
Ma ora alla Principessa non importava più che Cingallegra fosse o non fosse figliola di ramaio. Non vedeva lume che per gli occhi di lei.
Accade spesso così.





SERPENTINA di L. Capuana

C'era una volta un Re e una Regina. La Regina era incinta.
Un giorno passò una di quelle zingare che van dicendo la buona ventura, e il Re la fece chiamare:
- Che partorirà la Regina?
- Maestà, un serpente.
Quelli trasecolarono.
- E che dovevano farne? Ammazzarlo appena nato? Allevarlo?
- Dovevano allevarlo.
La povera Regina dette in un pianto dirotto:
- Chi avrebbe allattato una bestia così schifosa? Lei sarebbe morta dal terrore! E poi, se le mordeva il seno?
- Maestà, non abbiate paura. Avrà un dente soltanto, un dente d'oro.
Infatti la Regina partorì un bel serpentello verde-nero, che subito, appena nato, sguizzò di mano alla levatrice, attaccossi alla poppa della mamma e si mise a poppare.
Quando fu addormentato, il Re gli aperse la bocca e vide che avea davvero un dente soltanto, un dente d'oro. Però, siccome non voleva che quella loro disgrazia si risapesse, fece dire che la Regina avea partorito una bella bimba, ed era stata chiamata Serpentina.
Serpentina cresceva rapidamente, e quando apriva la bocca, il suo dente d'oro straluccicava.
Un giorno ripassò quella zingara, e il Re la fece chiamare:
- Dimmi la ventura di Serpentina.
- Buona o cattiva, Maestà?
- Buona o cattiva.
La zingara prese in mano la coda di Serpentina e si messe ad osservarla attentamente. Scrollava la testa.
- Zingara, che cosa vedi da farti scrollare la testa?
- Maestà, veggo guai!
- E non c'è rimedio?
- Maestà, bisognerebbe interrogare una più sapiente di me: la Fata gobba.
- O dove trovare questa Fata gobba?
- Prendete del pane e del vino per otto giorni e camminate sempre diritto, badiamo! Senza voltarvi in dietro. All'ottavo giorno vi troverete avanti a una grotta: la Fata gobba abita lì.
- Va bene, - disse il Re - partirò domani.
Prese le provviste per otto giorni, e si mise in cammino. Quando fu a mezza strada:
- Maestà! Maestà!
Stava per voltarsi, ma si ricordò della raccomandazione della zingara, e tirò diritto.
Un altro giorno, ecco dietro a lui un urlo di creatura umana:
- Ahi! M'ammazzano! Ahi!
Il Re si fermò, irresoluto; quel grido strappava l'anima!... E stava per voltarsi; ma si ricordò della raccomandazione, e tirò diritto.
Un altro giorno, ecco alle sue spalle un gran rumore, come di cavalli che corrano di galoppo.
- Bada! Bada!
Spaventato, stava per voltarsi; ma si ricordò della raccomandazione della zingara, e tirò diritto.
Giunto davanti alla grotta, cominciò a chiamare:
- Fata gobba! Fata gobba!
- Gobbo sarai te! - rispose una voce.
E il povero Re, sentitosi un po' di peso sulle spalle, si tastò. Gli era proprio spuntata la gobba.
- Ed ora che fare? Come tornare indietro con quella mostruosità?
Risolse di tornar di notte, perché nessuno lo vedesse. La Regina, accortasi di quel gonfiore sulle spalle, gli domandò:
- Maestà, che portate addosso?
- Porto la mia disgrazia!
E raccontò com'era andata.
La Regina risolse di tentar lei:
- Fra loro donne si sarebbero intese meglio.
Fece le sue provviste di pane e vino per otto giorni, e partì.
A metà strada:
- Maestà! Maestà!
Lei, sbadatamente, si volta, e si trova tornata al punto d'onde era partita.
- Pazienza! Ricomincerò.
La seconda volta, più in là di mezza strada, ecco alle sue spalle un gran rumore, come di cavalli che corrano di galoppo:
- Bada! Bada!
Presa dallo spavento, si volta, e si trova di nuovo al punto d'onde era partita.
Allora, da scaltra, disse al Re:
- Maestà, turatemi le orecchie col cotone e versatevi su della cera. Così non sentirò nulla, e potrò arrivare dalla Fata gobba: altrimenti non ci sarà verso.
Il Re le turò le orecchie a quel modo, e lei partì.
Giunta davanti la grotta, si sturò le orecchie, e picchiò. Picchia, ripicchia, non rispondeva nessuno. Lei non voleva chiamare, e dava all'uscio col bastone, a due mani.
- Chi è? - urlò finalmente una voce - Chi cercate?
- Son io: cerco la Fata.
- Quale Fata? Delle Fate ce n'è tante!
- La Fata gobba.
Le scappò di bocca.
- Gobba sarai tu!
La Regina si tastò subito le spalle. Le era proprio spuntata la gobba.
Tornò di notte, per non esser veduta; e il Re, prima di ogni cosa, le guardò dietro.
- Maestà, che portate addosso?
- Porto la mia disgrazia!
E raccontò com'era andata.
- E tutto questo per Serpentina! Schiacciamogli la testa! La mala fortuna ci vien per lei.
Il Re non sapea risolversi:
- Non era sangue loro?
- Farò di mio capo - disse fra sé la Regina.
E, di nascosto al Re, chiamò una guardia di palazzo:
- Prendi questa cassettina e vattene in un bosco. Quando sarai lì, farai una catasta di legna, ve la metterai su e darai fuoco. Finché non sia consumata, non dovrai tornare indietro.
- Maestà, sarà fatto.
Intanto il Re ordinava gli si chiamasse la zingara:
- Dimmi la ventura di Serpentina.
- Buona o cattiva, Maestà?
- Buona o cattiva.
- Maestà, Serpentina corre pericolo di morte:

E se muore Serpentina,
Tutto il regno va in rovina.

- Che pericolo può correre nelle stanze reali?
- Maestà, non è più lì.
Quando il Re apprese quello che sua moglie avea fatto, cominciò a strapparsi i capelli:
- La loro rovina era compiuta. Ah! Povera Serpentina, dove tu sei?
E una voce lontana, lontana:
- Maestà, sono nel bosco.
- E che tu fai?
- Sento strani rumori.
Il Re ordinò:
- Mi si selli il miglior cavallo della mia scuderia!
Montò a cavallo e via, come un fulmine, per la strada del bosco. Di tanto in tanto si fermava:
- Serpentina, dove tu sei?
- Maestà, in mezzo al bosco.
Ora la voce era più vicina.
- E che tu fai?
- Maestà, ho troppo caldo.
Il Re conficcava gli sproni nei fianchi del cavallo: avrebbe voluto che volasse. Ma quando fu in mezzo al bosco, vide una gran fiamma:
- Serpentina, dove tu sei?
- Maestà, in mezzo al bosco.
La voce era vicinissima.
- E che tu fai?
- Pelle nuova, Maestà!
Il Re corse alla catasta in fiamme, e senza curar di scottarsi, tirò la cassettina fuori della brace. L'aperse in fretta e furia, e vide scappar fuori una ragazza di belle forme; se non che avea la pelle tutta squamosa, come quella d'un serpente.
- Troppa fretta, Maestà! Ora non potrò più maritarmi!
Serpentina non avea avuto il tempo di far pelle nuova. E dava in un dirotto pianto; era inconsolabile:
- Lasciatemi qui sola. Anderò dalla Fata gobba.
Non potendola persuadere altrimenti, il Re l'abbandonò in mezzo al bosco e tornò al palazzo reale.
Ma Serpentina, gira di qua, gira di là, non trovava l'uscita. Vide uno scarafaggio:
- Scarafaggio, bel scarafaggio! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un magnifico regalo.
- Non la conosco.
E tirò via.
Più in là, vide un topolino:
- Topolino, bel topolino! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un magnifico regalo.
- Non la conosco.
E tirò via.
Più in là ancora, vide un usignuolo in cima a un albero:
- Usignuolo, bell'usignuolo! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un magnifico regalo.
- Mi dispiace, ma non posso. Aspetto la bella dal dente d'oro che deve passare di qui.
- Usignuolo, bell'usignuolo! Sono io la bella dal dente d'oro.
E mostrò il dente.
- O Reginotta mia! Son tant'anni che t'aspetto.
L'usignuolo divenne, tutt'a un tratto, il più bel giovane che si fosse mai visto, la prese per mano e la condusse fuor del bosco.
Giunti davanti alla grotta, il bel giovane picchiò.
- Chi siete?
- Son io e Serpentina.
- Chi volete?
- La Fata regina.
La grotta si spalancò, e si vide il gran palazzo della Fata gobba; ma bisognava dirle Fata regina; se no, se l'avea a male.
- Ben venuta, figliuola mia! T'aspettavo da un pezzo. Questo giovine è figlio d'un regnante. Una Maga gli aveva fatto l'incantesimo, e per romperlo ci voleva la ragazza dal dente d'oro. Ora dovrete sposarvi.
La Reginotta, con quella pelle squamosa, era un orrore. La Fata gobba cominciò a strusciarla da capo a piedi, e in poco d'ora la mondò, in guisa che non pareva più lei. Era così bella, che abbagliava.
La Regina, come intese che Serpentina stava per tornare, montò sulle furie:
- Se vien lei, partirò io! È la nostra cattiva sorte!
Ma, saputo che quella recava l'unguento da far sparire le gobbe, le andò incontro col Re e con tutta la corte. Fecero grandi feste, e vissero tutti felici e contenti.
E noi citrulli ci nettiamo i denti.


Frittata e non frittata,
La fiaba è terminata.





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